LARINO. Cari lettori prima di proporvi la lettura di questo mio nuovo articolo, mi corre l’obbligo di salutare cordialmente due signore, native di Larino, discendenti della famiglia cui appartenne questo antico palazzo. Con loro mi sono sentito recentemente, e sono lieto che mi seguono in questo mio programma di racconti storici e ricordi, talora personali, di storia larinese, ma anche derivanti dalla tradizione orale.
Spero sinceramente di non ledere la loro sensibilità, e porgo anzitempo le mie scuse se, a volte, i miei scritti sono poco esatti o poco chiari, in quanto “travisat”i o interpretati male. Nello specifico mi riferisco al mio articolo “Lettere di guerra dalla Spagna alla madre e ai parenti larinesi del Tenente colonnello Tonino Christinziani” apparso il 27 novembre 2020 su queste colonne. Ma veniamo al mio nuovo articolo che vuole essere innanzitutto un tributo al patrimonio storico-artistico della Città Frentana.
Quest’oggi vi guido da piazza del Duomo fino alla fine di via Leone, in un quartiere del centro storico di Larino che i cittadini, ancora oggi, chiamano in dialetto U T’rrijone (poiché una grande torre lo identificava chiudendo l’antica fortificazione dell’urbe).
E’ questo un luogo che ha un suo particolare fascino ed è significativo per i larinesi, innanzitutto per la tradizione religiosa della carrese intitolata al Santo Patrono Pardo, ma anche perché qui sorge una delle tante dimore storiche tra le più vaste, meglio conservate e di notevole importanza per comprendere meglio la storia di Larino.
In un angolo di questo palazzo si incontrano con la principale via Leone, via porta di Basso, una memoria dell’antica fortificazione e via Seminario (che celebra il primo Seminario della Cristianità) nel suo ultimo tratto in una ripida discesa.
Durante la processione con i caratteristici carri addobbati con fiori di carta colorati, trainati da una coppia di mucche, in questo punto molto scosceso, che lambisce la facciata dello storico palazzo, si mostra tutta l’abilità dei carrieri, unita all’ansia dei partecipanti, per la buona riuscita di questo passaggio, l’ultimo percorso della processione prima di arrivare dinanzi al portale del Duomo al suono incessante e festoso del campanone che si unisce all’antico canto dei fedeli:
Le voci alziam di giubilo a Dio che Pardo elesse Larino per proteggere……………che nel cader dei secoli immoto resterà.
Il palazzo, che rientra nell’A.D.S.I, è stato la residenza della famiglia Maggiopalma, un cognome che trae le sue origini dai coniugi Antonio Palma e Anna Antonia Maggio.
Ho avuto modo di visitarlo, in qualità di amico degli attuali proprietari, e per la sua grandezza e numero di locali, i suoi diversi ingressi, è un piccolo castello; inoltre gli antichi proprietari vollero in questa dimora anche due cappelle per la preghiera, regolarmente concesse con Brevi pontifici nel 1815 e nel 1870.
L’edificio, da tempo acquistato da una nuova famiglia, è stato ristrutturato rispettando gli spazi e le architetture originarie. La famiglia Maggiopalma si è estinta nel 1973 con Teresa Maggiopalma.
L’emblema scolpito su uno dei portali del palazzo che riunisce i simboli delle due famiglie, è davvero singolare e, a mio avviso, significativo poiché non vi sono linee di demarcazione tra i rispettivi simboli delle due casate, ma appare un’unica immagine ben calibrata per cui ne risulta una dolce e perfetta unione:
una mano robusta stringe e porta fieramente in alto un ramo palmato, mentre un grazioso ed esile volatile, sfiora il bordo di un vaso ansato ricolmo di fiori, e più che beccare, sembra annusare e bearsi dei profumi di questo ricco bouquet, quasi a simboleggiare una rinascita della famiglia in nome dell’amore e dell’abbondanza e la cornice lapidea, a mo’ di sipario, si apre mostrando questa romantica scena, puntellata in alto da due stelle.
Antonio Palma, che ho menzionato pocanzi come marito di Anna Antonia Maggio, rimasto vedovo si risposò a Modena con questa signora a cui si deve, nella futura discendenza, il doppio cognome della nuova famiglia. Antonio fu uno dei protagonisti dei noti fatti di sangue che si verificarono nel 1769.
Di questa vicenda si interessò, a distanza di molti anni, Alessandro Dumas père nel romanzo “La Sanfelice”, noto anche come “Un Regno insanguinato”, ambientandolo nel periodo della Repubblica Napoletana del 1799. Il bambino morto con la madre, la moglie di don Antonio Palma, dopo tre ore dal parto cesareo, nella fantasia del romanziere francese sopravvive e diventa il protagonista un secolo dopo, nei moti rivoluzionari del 1799, l’atto d’amore di Luisa San Felice ne “Il Regno insanguinato”.
L’autore era amico del barone di Larino, Carlo Magliano, e Antonio de Palma si rifugiò a Sacurno, in provincia di Matera, dove si risposò con Antonietta di Maggio e, quando i figli nati dalle seconde nozze, una volta placate le acque, tornarono a Larino diedero origine a un’altra famiglia, non più Palma, ma Maggio-Palma.
Il contributo dello storico e studioso larinese Giuseppe Mammarella nel suo saggio “La congiura del 1769”, di recente pubblicazione, chiarisce le molteplici discordanze e lacune che si riscontrano nei diversi testi di storia che hanno riportato le sanguinose vicende che seguirono l’agguato mortale nei confronti del duca Francesco Carafa. L’ostilità del “Signore e possessore di Larino” in quel periodo storico era diretto verso alcune famiglie notabili larinesi, che portati dapprima come ribelli dinanzi alla Corte criminale di Lucera si coalizzarono in una congiura che eliminò il “ladrone di Larino”, il duca Francesco Maria Carafa della Stadera.
Lo studioso e storico locale Mammarella ha attinto per scrivere questo Saggio esclusivamente dall’Archivio Storico Diocesano, di cui è direttore e responsabile, studiando in particolare alcuni passi di un manoscritto redatto da Antonio (de) Palma, uno dei principali artefici della sanguinosa vicenda che si realizzò il primo maggio del 1679.
“Dopo aver reso l’anima a Dio (il corpo del duca Carafa) con gran pompa di funerali….fu sepolto nella Chiesa di San Francesco, il terzo giorno, all’interno del coro presso la parete dietro l’altare maggiore.”
Tuttavia, in questo mio scritto, voglio anche ricordare, per avere un quadro più “colorito” e ampio della tragica vicenda un breve brano di un articolo dei primissimi anni ’50, stilato da Giuseppe Orazio de Gennaro, più noto a Larino come don Peppe per il suo titolo di barone e Cavaliere, già primo cittadino larinese negli anni sessanta.
A mio avviso questo articolo è un ulteriore e prezioso tassello non solo per ricostruire la storia della cittadina frentana, ma per la Storia del Molise, preciso che fu pubblicato a Roma (nel 1955, n.3, Anno 5°).
Larino ai tempi della congiura del 1769 contava quattrocento abitanti, scampati alla terribile e rovinosa epidemia del 1656, vennero a mancare quelle famiglie tra cui i de Raimondi, Sorella, Espinosa, de Palma, de Obscuris, de Misseriis…che rappresentavano il patriziato locale, tranne la famiglia Palma che sopravvisse.
L’articolo del colto barone è una gradita e appassionata lettura del tragico evento che è storia larinese, in aggiunta alla, sicuramente più nota e importante storia dell’antica Larinum.
Così scrisse Giuseppe Orazio de Gennaro:
Tutto avvenne mentre rientrava dal suo feudo di Campomarino, in un punto strategico, la salita nei pressi del Convento dei cappuccini che –me lo ricordo bene- era davvero dura farla, come ricordo la croce in legno, piantata nel mezzo di due querce secolari, che ombreggiavano il tratto dove dovevi scendere dalla bicicletta e portarla a mano o dar carretto e stare dietro per aiutare il cavallo a spingere per superarlo……
A conclusione di questo articolo c’è la liberazione di Larino dai feudatari, dopo le dure rappresaglie e la consorteria dei Palma asserragliati nella torre dell’Episcopio, quella più alta che poi, per vendetta, venne rasa al suolo, diventando una zona libera e con un giardino dove ragazzi e bambini giocavano!
Con questa Liberazione dai feudatari quando altri vennero dalla vicina Casacalenda nella cittadina frentana, furono considerati allo stesso livello e con pari dignità dei “Patrizi Larinati liberi Signori di un libero municipio”, furono anch’essi “primi inter pares”.
Questa congiura che si tramanda da secoli e che Alessandro Dumas ha fatto rivivere nel 1799 con la sua fantasia di romanziere (nel suo romanzo descriverà anche la carrese di San Pardo), va interpretata come una premessa, sebbene locale, e quindi limitata alla “Larino del patriziato” (la cittadina, a dispetto di altri centri abitati, non fu mai propriamente un “feudo”), ad un più ampio e radicale cambiamento, la fine della feudalità del Regno.
In parole povere, si assiste alla liberazione della municipalità dai feudatari, lasciandoci una pagina di enorme spessore storico degna di far parte della storia nazionale.
Inoltre bisogna tenere conto, in quel particolare periodo, che anche il clero appoggiava il patriziato locale e che si mosse molto più facilmente durante l’assenza del potere regio che aveva come sede principale Madrid e fu così che s’intraprese il piano per eliminare il “ladrone di Larino”, il duca Francesco Carafa della Stadera che rappresentava in quel lontano secolo la giurisdizione feudale nella Città Frentana.
dott. Adolfo Francesco Stinziani