LARINO. Nel nostro viaggio nel Molise ci piace oggi pubblicare una recensione, un vero e proprio trattato di fotografia scritto dal maestro Paolo Di Paolo e dedicato al fotografo Guerino Trivisonno, all’amico Rino che smessi i panni del medico trasfusionista ha scelto di coltivare la sua passione: la fotografia.
Le sue foto saranno in mostra nella splendida cornice della chiesa di San Francesco a Larino per tutto il periodo natalizio a partire dal giorno dell’Immacolata Concezione.
Scrivere altro della maestria di Trivisonno non spetta a noi, perciò vi lasciamo alla recensione che Di Paolo ha dedicato a Guerino capace portare il suo occhio lì dove altri vedono soltanto altro.
“Caro Guerino,
pochi anni fa, alla fiera di Larino, vidi per la prima volta le tue foto. Ti cercai e mi complimentai. Capii subito che avevi i numeri giusti per attingere a livelli seriamente qualificati. Avevo apprezzato molto l’uso che facevi del colore, inconsapevolmente, com’è normale che sia. Mi era sembrato di ritrovare lo stile del più grande fotografo di moda italiano del momento, Giovanni Gastel, scomparso recentemente.
Era il Presidente dell’Associazione Italiana Fotografi. Anche lui usava i colori in fotografia d’istinto, ossia anche lui inconsapevolmente. I colori erano nei suoi lavori dei volumi, senza alcun significato tematico. Erano, insomma, degli elementi soltanto compositivi, propri dell’arte astratta. La sera che glielo spiegai, a Milano, rimase sorpreso della mia scoperta. Accade sempre così: spesso facciamo dell’arte e non ce ne rendiamo conto. E’ successo anche a me, la sera della presentazione del mio libro. Intervennero tre direttori di giornali, tre scrittori, due critici ed altri. Spiegarono ciò che delle mie fotografie io non avevo mai capito. Mi paragonai al personaggio di Voltaire, a quel Candide a cui il suo istitutore Pangloss cercava di insegnare cose che lui non sapeva di sapere. E torniamo alle foto della Fiera e a quelle recenti che mi hai mostrato.
L’ultima volta che ci vedemmo a Larino io avevo esitato a spingerti su di un percorso diverso da quello cromatico soltanto. Poi pensai che il tuo talento sarebbe andato perduto lasciandoti inseguire schemi obsoleti. Pensai anche che tematiche attuali si rifanno all’ultimo tentativo, poi abortito, della fotografia francese del dopoguerra. La mia mostra ha avuto fortuna proprio perché si è proposta come esempio di un genere che io ritenevo superato: il genere “umanista”. E’ durato una quindicina di anni ed ha avuto rappresentanti come Doisneau, Doubat, Niepce, Ronis, Bichoff.
A questo punto immagino cosa penserai, che ti stia proponendo i nomi dei più famosi fotografi europei per indurti ad imitarli; tutt’altro, e ci sarebbe da aggiungere gli americani e gli inglesi. Starai notando che ho escluso Cartier Bresson. Bene, potrei citarti tanti altri e di tutti potrei indicarti i limiti. Cominciamo con Doisneau, reso famoso dal suo “Bacio”, una coppia di giovani che si esibisce in una piazza importante di Parigi; la foto che ha fatto la fortuna di Doisneau. Poi si seppe che si trattava di un bacio inventato e venne dimostrato che di baci simili ne aveva realizzati almeno altri tre. Insomma si era specializzato in “baci”.
E veniamo a Bresson. Conosci il reportage che ha fatto a Scanno in Abruzzo? Io conosco Scanno, e mi sento di affermare che basta, o bastava, avere in mano una Leica, chiudere gli occhi e scattare a suo modo, alla sauvette, e qualche buona foto sarebbe venuta fuori. Ma Bresson per tirar fuori qualche buona foto aveva bisogno di mobilitare mezzo paese, come per quell’immagine di tre o quattro donne vestite di nero riprese su di una gradinata a chiocciola, in pietra. Ed ha avuto la maldestra idea di pubblicare in un suo volume l’intera sequenza dei provini che avevano preceduto quello scatto. Puoi immaginare la scena: “Madame Carmela plus en bas e vous, madame Filomena, regardez votre amie Santuccia e tenez bien la tina sur la tete“. A giudicare dal numero degli scatti preparatori, gli sarà occorso un paio d’ore per ogni scatto riuscito. E Bresson era il teorico dell’istante magico, irripetibile!
Perchè ti parlo di queste cose? E’ molto semplice spiegartelo. L’ultima volta che ci siamo visti a Larino ti ho intrattenuto, com’è mio difetto, sul mio modo di concepire la fotografia; e mi sono fatto trascinare dalle mie convinzioni, indicandoti la fotografia umanista come l’unica degna di essere praticata. Tu hai tutti i numeri dalla tua parte per capire il mio incitamento e me lo hai dimostrato sottoponendomi dopo solo qualche settimana una serie di foto che Doisneau si sarebbe soltanto sognata.
Attenzione, però. I limiti della fotografia umanista sono maggiori di quanto si possa credere. Non basta ritrarre dei vecchietti con bastone o delle casalinghe impegnate nei loro ruoli domestici. Importante è raccontare delle cose che vadano oltre l’orizzonte quotidiano delle persone, avere l’intuito di presagire situazioni anche imprevedibili, ma possibili, e allora l’istante magico di Cartier Bresson scaturirà addirittura sorprendendoti. E poi, non aspettare che le situazioni si materializzino o che i personaggi rivelino la loro identità solo perché tu, fotografo, lo desideri.
E’ l’occasione per “fotografare” proprio la mancanza di disponibilità del soggetto. Non è forse anche questo un aspetto della sua personalità? E infine, non avere mai fretta; è un grande segreto. Pensa che alcune delle fotografie più importanti che io abbia realizzato sono quelle su Ezra Pound: mi trovai davanti una statua di sale, immobile, muta. Aspettai un quarto d’ora prima di mettere mano alla macchina fotografica. Infine, fotografai il suo silenzio”.
Saper fotografe il silenzio, arte di pochi.