COLLETORTO. In questo scatto di memoria la macchina fotografica cattura un prezioso scrigno di sapere. All’istante si fissano gli attimi di ogni pensiero, tra racconti, note di storia e architetture di ieri. Una finestra aperta a tutto campo su uno spaccato inedito ed intenso, ricco di emozioni e di dolci sentimenti. In primo piano brilla la sposa come una regina.
Si tratta senz’altro di una foto di matrimonio di valore. Tra le più antiche, senz’altro unica nel suo genere. Il felicissimo evento si riferisce alle nozze tra Giovanni Antonio Francesco Nasillo e Antonia Teresina Nasilli.
Datato sabato 27 gennaio 1906, ore 10.30. Siamo, dunque, all’apertura delle prime pagine del Novecento dove sussultano i valori della tradizione. Incuriosiscono le regole praticate nel corso nella composizione del corteo nuziale. Il fronte del corteo è costituito da tre giovani donne. Nel suo simbolismo è intriso di tanta sacralità. Alle sue spalle sfilano i parenti più stretti in fila per tre. Nella religione cristiana il numero tre rappresenta la natura di Dio. E’ il numero perfetto per eccellenza. La sposa, in abito bianco, apre il corteo diretto verso la chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista, nel cuore del “Borgo degli Angioini”.
Il fluire della scena profuma di antico in attesa di nuove forme di vita. L’accompagnano due damigelle. La prima in abito da cerimonia piuttosto scuro. La seconda in abito morbido e chiaro. Sono le uniche donne vestite a festa a sfilare in questo scatto prezioso del primo Novecento. La sposa è accompagnata da soli uomini vestiti in maniera uniforme. Tutti con giacca, pantaloni, camiciola o corpetto a riporto. E classico cappello da galantuomo.
Sotto al vestito maschile spicca una bianca camicia. Alla sinistra della sposa un piccolo gruppo anima una scena altrettanto curiosa. E’ quella singolare di diversi ragazzini, vestiti a festa, quasi allo stesso modo degli adulti. Tra le luci e le ombre di questa rappresentazione esaltante, ogni elemento della scena tradizionale ha un senso. Nella liturgia del rito si percepisce, in tono sommesso, perfino il respiro materno proveniente da molto lontano.
L’insieme è senz’altro un preziosissimo documento. Un quadro vivente stracolmo di sentimenti ed affetti silenti che l’abitato porta solennemente con sé. In effetti l’ambiente confeziona a scena aperta la prima parte del rito tradizionale, in una cornice architettonica che trasmette non poche emozioni tra tante pillole di cultura locale. Il corteo della sposa non sfila al centro della strada principale come avviene oggi, ma sul marciapiede, in pietra locale tutto bianco. Sicuramente perché il fondo della strada principale dell’abitato all’epoca era in terra battuta. Colpisce il candido splendore dei marciapiedi. Bianchi, larghi e pieni di luce naturale. Qui il linguaggio della pietra, dettato da varie forme geometriche, genera non poche emozioni. La storia si tuffa nelle tradizioni di ieri. Il marciapiede si trasformava in un parco giochi all’aperto. Sulle varie geometrìe delle pietre si giocava a “Spezzalisc’ ”.
Sui cordoli allungati era usuale acclamare il “Giro d’Italia”. Bisognava essere abili nel calibrare la forza da imprimere al dito medio, per non uscire fuoristrada e scavalcare gli intoppi più duri, dovuti ai dislivelli della pietra allungata. Un gioco che coinvolgeva tanti ragazzini. Si svolgeva mettendo in azione, dalla partenza al traguardo, i tappi metallici usati nelle prime bottiglie di vetro. In lessico colletortese denominati “ruc’lill’ ”.
Al centro della fotografia, davanti alla Taverna del Marchese, che nel periodo più attivo poteva ospitare fino a settanta cavalli, come si rileva da una fonte napoletana del 1704, si notano, parcheggiati, senza i loro animali, i mezzi dell’epoca: “I traìn’ ”. Veicoli, in legno a due ruote, trainati da due cavalli, di fondamentale importanza nel trasporto di beni di prima necessità, tra i tratturi molisani, il Sannio Frentano e la Capitanata. In poco più di due giorni, percorrendo queste piste rurali, raggiungevano, tra non poche difficoltà, dopo aver sostato nella Taverna di Foggia, le Saline di Margherita di Savoia per prelevare il sale necessario all’economia dell’epoca. I cordoli dei marciapiedi, che nella foto si vedono in bella mostra, ritagliano, invece, un percorso decisamente lineare, per accentuare la disposizione geometrica delle case a vari ripiani. Sembra che tutte salgano in direzione della monumentale scalinata del monastero, fino alla Chiesa piena di arte napoletana, aperta a tutto campo sul Corso.
I gradini del tempo, a cascata, dettano la storia e la vita degli uomini di questo luogo. Tutto risulta armonioso e senza clamore. In pieno silenzio religioso. Non c’è nessuna fontana moderna, che, in un secondo momento, deturperà per sempre la bellezza di questa magnifica piazza, progettata così come la vediamo nell’immagine. Il contesto ordinatamente è delimitato da un lato dalla “Torretta di Bambà” e dall’altro dal “Palazzo gentilizio della famiglia De Simone”, con tanto di loggiato scenografico, a sette arcate, che non esiste più. Tali elementi urbani non interrompono affatto la strada principale che sale verso il quartiere Colle. In un continuum razionale, dal tratto deciso, ben costruito e definito. Voluto così, da una mente che porta il paese nel cuore. Il racconto della pietra, pertanto, in questo caso, tra “lisc’ e l’sciott’ “, esalta questo piccolo palcoscenico naturale. Un teatro a scena aperta. Negli anni Settanta, in virtù di un modernismo superficiale, brutto e scriteriato, la pavimentazione in pietra dei marciapiedi è stata cancellata per sempre e sostituita con bruttissime mattonelle di bitume. Qualche frammento d’antico resiste “Dietro la Taverna” e sulla “Strada dei Mulattieri”.
Da una attenta lettura si nota solo qualche lampione di ghisa a gas di antica memoria. A testimonianza di questa vecchia illuminazione urbana, di lampioni ne restano quattro, sistemati prima intorno al monumento ai caduti, e poi trapiantati all’entrata del cimitero. La scalinata era all’epoca l’unica via d’accesso al Colle. Quartiere in contrasto con il resto del paese. Si sviluppa intorno al complesso monastico, un tempo completamente separato dal centro storico come si può osservare in una cartina del Seicento relativa alla Diocesi di Larino. Il monastero si presenta come un’autentica fortezza. Circondata da lunghe mura perimetrali, che, per fortuna, oggi resistono e andrebbero restaurate. Per la pubblicazione di questa foto d’epoca in bianco e nero ringraziamo Gaetano Nasilli, il quale ha il merito di averla divulgata mediante la realizzazione di un video interessante. Nel suo linguaggio spontaneo l’immagine nasconde tanti legami tra generazioni dei tempi andati. I chiari richiami, poi, ad un’arte urbana, semplice e genuina, rispondente ai nuovi bisogni del popolo, hanno il pregio di animare un’ inedita narrazione silenziosa. Dove germoglia la realtà di un piccolo mondo antico. Dove il bello resiste nelle cose più semplici che oggi sembrano inutili. C’è tanta vita tra i ritagli di pietra, lineari, spogli o sconnessi. In questo contesto architettonico la sostanza del lavoro artigiano si esalta. Dà valore al silenzio, al sentire, al vedere e al sacrificio. Trionfa la mano al servizio dell’uomo.
Che i più non vedono o non vogliono vedere. E, come dice Franco Arminio nella sua recente pubblicazione, La cura dello sguardo, “Chi guarda bene si ammala più difficilmente. Le cose che entrano dagli occhi sono dei farmaci. Se fotografi un uomo che cammina, un balcone, se guardi cose dismesse, abbandonate, diventi una piccola arca di Noè. Porti in salvo qualcosa. Salvare aiuta a stare meglio”. Il bello c’è. Ma spesso si fa molta fatica a vederlo per conservarlo come si deve.