‘Il futuro di Larino è legato, per larghi aspetti, alla realizzazione di quanto tende a salvare il suo passato (Angela Di Niro).
di Pino Miscione
LARINO. Ancora ignoto risulta essere il luogo di sepoltura di Capito. A dire il vero, non credo neppure che qualche archeologo – non dico quelli della Soprintendenza molisana, in tutt’altre faccende affaccendati – sia interessato a ritrovarne il sarcofago interrato in qualche angolo di una delle necropoli dell’antica Larinum. Ma se, putacaso, lo si rinvenisse e si osasse addirittura scoperchiarlo, sono certissimo che troverebbero il corpo di Capito, seppur ridotto ai minimi termini di quella che fu una parvenza umana, rivoltato. Sì, rivoltato; ne sono arci sicuro: per un sussulto di vita molto procrastinato egli ha voluto manifestare il suo dissenso; e la ragione risiede nel fatto ahimè inconfutabile che i suoi molti denari, che egli lasciò nel suo lascito testamentario prima di tirar le cuoia a che si edificasse nella sua città d’origine un Anfiteatro realizzato “come Vitruvio comanda”, risultano mal spesi. L’Anfiteatro romano di Larino, difatti, seppure dopo millenovecento anni dal suo trapasso, cade a pezzi.
Ultimo disfacimento: recentemente, dal rudere più rilevante del settore nord-ovest si è staccato un blocco costituito da laterizi legati da calcestruzzo, sbriciolatosi come pane raffermo sotto il sole, e le foto che accludo lo documentano in modo disarmante. Ma altri crolli imminenti si annusano nell’aria, nel caso in cui quella istituzione a volte discussa che va sotto il nome di Soprintendenza archeologica non si deciderà ad effettuare un primo immediato intervento di messa in sicurezza di tutto ciò che ancora rimane dell’imponente Edificio, perché l’Anfiteatro – lo ribadiamo – sta cadendo a pezzi.
A pezzi, com’è naturale che sia, anche la lapide commemorativa che ricorda il prestigioso cursus honorum di questo facoltoso personaggio del quale peroriamo da queste pagine il ritrovamento dell’avello. Manca un frammento, mai recuperato, che c’impedisce di ricavarne con certezza il nomen – c’è chi ha proposto Raius, chi invece Cærinius –; mentre una buona metà è stata trafugata, come capita spesso da queste parti. Amphitheatrum testamento fieri iussit recitano difatti le due linee finali di questa epigrafe onoraria appoggiata a ridosso della Porta occidentale. A proposito, voi che leggete, non sia mai che vi avventuriate a scendere lungo gli scalini di questa Porta, ché la volta a botte – l’unica peraltro superstite dell’intero maestoso Monumento, le altre sono ricostruzioni – vi potrebbe cadere in testa. E meno male che un cartello stinto di “divieto di accesso” dissuade i temerari e i trasgressori della legge. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate calandovi giù per questo pertugio. D’altronde, analoghi divieti precludono l’attraversamento di altre due Porte, e solo quella meridionale è sicuramente accessibile. Desolante paesaggio di decadenza agli ultimi singulti, si direbbe. Ma no: sursum corda! Il direttore di questa Testata online mi ha chiesto di stendere qualche nota soprattutto riguardo a ciò che è necessario e opportuno fare per il suo recupero e la sua valorizzazione. Perciò reputo sia più conveniente inquadrare meglio l’Oggetto di queste sintetiche annotazioni, a beneficio di qualche lettore poco informato. E dunque procediamo con ordine.
LA STORIA DELL’EDIFICIO
Cicero – adopero il caso nominativo per non far torto a Capito – ci riferisce in quella sua preziosa miniera rappresentata dalla sua orazione in difesa di quell’avvelenatore sfuggito alla condanna, che nel suo secolo, il primo avanti Cristo, nella Larinum pienamente romanizzata da qualche decennio soltanto, si tenevano ludi publici. Un anfiteatro vero e proprio non esisteva ancora, e i ludi si svolgevano verosimilmente nella vicina area del Foro ovvero in strutture lignee mobili sistemate in qualche spiazzo, un po’ come avviene con i nostri oramai malandati circhi. D’altre parte si sa che a Roma esisteva l’Amphitheatrum Neronis, tirato su in un anno nel 57 d.C. nel Campo Marzio, fatto interamente di legno.
Poi, circa un paio di secoli dopo, venne a cavarci dagli impicci il nostro munifico personaggio di rango senatorio, rientrato nella sua città d’origine a fine carriera e divenutone patronus, spronato probabilmente dall’eclatante inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio nell’Urbe. L’area scelta, già in parte sepolcreto nei secoli precedenti, fu quella posta un po’ ai margini del centro abitato per impedire che le torme di spettatori turbolenti, gli hooligans dell’epoca, invadessero il centro della città. Venne orientato secondo l’asse urbano preesistente nordovest-sudest che rimane tuttora in molte case novecentesche e di questo millennio, e non seguendo quello allora più recente del Foro romano, disposto secondo la quasi perfetta direzione est-ovest; ma probabilmente un edificio analogo di più modeste pretese esisteva già in età giulio-claudia. Un Senatoconsulto di età tiberiana (19 d.C.) infatti, ordinava che i rampolli ambosessi delle famiglie patrizie della città evitassero di combattere contro le belve ovvero di cimentarsi nei giochi gladiatorii.
Il nostro Anfiteatro venne inaugurato tra la fine del I secolo d.C. e la prima metà di quello successivo; più probabilmente nell’età domiziano-traianea. Il terminus post quem si ricava dalla suddetta lastra celebrativa, che menziona tra gl’incarichi giovanili del nostro Capito quello di flamen del divo Tito, vale a dire di sacerdote dell’imperatore divinizzato post mortem – non a caso Svetonio lo definisce amore e delizia del genere umano – che defunse nel settembre dell’81. È in parte costruito in elevato e in parte ricavato nel banco di tufo (ima cavea); dell’ordine superiore si legge l’ambulacro originariamente coperto da una volta a botte, lungo il quale si aprono 12 vomitoria; le strutture in elevato sono conservate solo in minima parte, specialmente nel settore nord-ovest, dove sono riconoscibili i resti di due rampe di scale convergenti che portavano agli ordini superiori. C’è chi ha avanzato che essi fossero costituiti da strutture lignee. A coronamento, si allungavano verso il centro le antenne per i velaria; nell’arena a piano convesso è scavata una fossa profonda 5 metri, servita da montacarichi, per la comparsa scenografica di belve e gladiatori; accanto alle due porte maggiori collocati anche 4 spoliaria, adoperati per curare o finire i gladiatori feriti. Si tratta di un Anfiteatro di media grandezza, che poteva ospitare circa 10.000 spettatori o poco più. La sua forma non è perfettamente ellittica, come viene spesso detto, ma ovale con curva policentrica, e questa imperfezione parrebbe determinata dalla presenza nel settore nord-est di una cava di arenaria e sabbia che avrebbe reso precarie le fondazioni in quel tratto.
Ma l’Arena larinate – dicono gli archeologi – ebbe vita breve: un paio di secoli dopo, in età tetrarchica, pare aver perduto ogni funzione come spazio ludico, anche perché – ma questo è un dato controverso – il centro cittadino stava assumendo caratteri di ruralità, visto l’abbandono più o meno graduale delle insulæ del centro abitato, a tutto vantaggio delle campagne e degli insediamenti suburbani, da uno dei quali sarebbe nato, per incastellamento di età longobarda, il Centro storico medievale. L’ancor maestosa Struttura venne adoperata come cava di materiali da costruzione, quindi tornò ad essere in parte un sepolcreto occasionale; in età longobarda le sue strutture fatiscenti, che tuttavia ancora conservavano qualcosa della pristina magnificenza, servirono molto probabilmente quale baluardo difensivo proprio per arginare le offensive di quel popolo fiero e bellicoso che s’accingeva a costituire nel Meridione d’Italia la Langobardia minor.
Nell’ambulacro di nord-est, chiuso da muretti in buona parte ancora in situ, tra il V e il VI secolo d.C. venne approntata una fornace per laterizi; mentre nella rampa della Porta orientale prima dell’VIII secolo funzionò una calcara, evidentemente resasi utile vista l’abbondanza di materiale disponibile a costo zero. I materiali di spoglio dell’Anfiteatro – scrive l’archeologa Di Niro –, specialmente gli elementi in calcare ma anche i laterizi, finirono con l’essere di ausilio per le costruzioni del centro medievale. Doloroso constatarlo, per noi contemporanei, ma molto plausibile in quei tempi remoti: dalla città morta ne nacque una più raccolta, timidamente arroccata nella sua angusta valle, che acquisirà una sua definita dignità monumentale nel corso dei secoli.
In quelli a noi più prossimi, nel settecentesco Casino Moro, ora Calvitti, pensato come padiglione di caccia, si costruirono rimesse e pollai; gli ambulacri si fittavano per stalle di maiali; altri ambienti annessi erano destinati a cantine e legnaie, mentre l’arena venne invece occupata da “inetta coltura, dettata da spilorcio guadagno”. I miei ricordi d’infanzia, giacché la mia casa è la più prossima alla Porta meridionale, mi riportano che nell’arena era stato ricavato un campetto di calcio, malgrado la presenza ingombrante di un albero dal fusto altissimo e dritto come un fuso; nelle giornate di neve lungo i piani inclinati della cavea, col podio che non costituiva allora alcun impedimento poiché ancora tutto interrato, scivolavano rapidamente i bob e gli slittini; mentre nella bella stagione tra i ruderi, mai recintati, si giocava a nascondino. Ho fatto in tempo a partecipare a qualcuna delle ultime celebrazioni eucaristiche svoltesi in occasione della festa di San Primiano, il 15 maggio.
IL RESTAURO
L’Anfiteatro larinate è stato riportato alla luce nel corso di più campagne di scavo, iniziate nel 1977 anche senza frequenza annuale, conclusesi negli anni Novanta. Sono stato obbligato testimone del recupero di questo Edificio monumentale, del dissotterramento delle sue strutture, della ricostruzione di alcune parti crollate – specie le volte dei fornici delle due Porte maggiori –, del suo restauro eseguito in modo che stimo più che soddisfacente. Il tutto avvenne durante quella che potremmo definire l’ “epoca d’oro” dell’Archeologia molisana, quando operavano sul territorio regionale alcune valenti archeologhe. Da quotidiano frequentatore, seppure esterno, della Soprintendenza campobassana per diversi mesi di quel periodo aureo, mi sento di confermare che si percepiva una voglia di fare, di valorizzare, che probabilmente è nel tempo quasi del tutto svaporata. Uno degli ultimi contatti con un’altra più recente responsabile di archeologia locale, resosi necessario per ottenere un permesso di accesso all’area del Foro, si concluse con queste vietative motivazioni che riporto alla lettera: «non è possibile, perché stiamo per mettere in sicurezza tutta l’area archeologica con un appropriato taglio degli alberi e una riqualificazione dell’intero sito del Foro». Sono passati cinque anni e passa, ma a parte il periodico taglio dell’erba, non si è visto altro.
LA VALORIZZAZIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO
Ancora all’archeologa Di Niro si deve la cura dell’iniziativa per l’istituzione del Parco archeologico della Civiltà Frentana. Estrapolo questo passaggio da un suo breve scritto del 1989, che lascia l’amaro in bocca proprio perché rimasto lettera morta: è depositato presso gli organi centrali un progetto di parco archeologico che include l’anfiteatro e le aree finitime e che prevede, tra l’altro, la sistemazione a museo archeologico della zona frentana della cosiddetta Villa Zappone. … Il museo, con servizi annessi, laboratori didattici e di restauro, biblioteca, ecc. è destinato a diventare punto di aggregazione di tutta la zona frentana. Intanto sono in corso di attuazione altre iniziative, di impegno finanziario più limitato ma non certo meno importanti in quanto o prioritarie o strettamente collegate al parco archeologico ed al museo: il restauro di tutto il materiale archeologico della zona frentana, proveniente sia da necropoli che da abitati; il riordino funzionale di tutti i materiali in deposito (schedatura, inventariazione, informatizzazione); gli interventi di sistemazione e di manutenzione di tutte quelle aree che non rientrano strettamente nel parco archeologico dell’anfiteatro. Il futuro di Larino è legato, per larghi aspetti, alla realizzazione di quanto tende a salvare il suo passato.
Il futuro di Larino è legato, per larghi aspetti, alla realizzazione di quanto tende a salvare il suo passato: mi sento di condividere. Ma pur avendole tentate tutte, abbiamo verificato negli anni che i singoli cittadini, quantunque organizzati in associazioni, non riescono a riattivare un circuito virtuoso che parrebbe volutamente interrotto non semplicemente per mancanza di fondi e carenza di personale bensì per l’avversione di una qualche indefinibile fazione, in periferia o al centro. Sarebbe invece indifferibile partire con l’istituzione del Museo archeologico di Villa Zappone, anche con pochi ma significativi pezzi, poiché altri ne verrebbero certamente in futuro, senza contare tutto quello che è ancora depositato nei locali della Soprintendenza come pure nei capannoni tuttora ospitati a ridosso dell’area anfiteatrale.
Inutile aggiungere, mi pare, quanto la situazione del resto del patrimonio archeologico cittadino sia altrettanto penosa: Il Foro romano in stato di semiabbandono, il quartiere residenziale dell’Asilo nido mai aperto al pubblico, l’area sacra di Via Jovine invasa da sterpaglia e arbusti. A un diverso livello, del tutto inadeguato si dimostra essere ciò che viene distribuito al visitatore del Parco archeologico, e nelle sintetiche brochure compare qualche imprecisione di troppo. Non esiste una valida pubblicazione, facilmente reperibile, che si rivolga a un pubblico medio, la quale sia in grado di valorizzare l’intero Patrimonio archeologico cittadino. Per di più, in nessuna di queste stringatissime pubblicazioni è mai fatto un cenno significativo all’orazione ciceroniana che più ci riguarda. Eppure, come ebbe a scrivere uno dei massimi archeologi viventi in una sua celebre Guida molto diffusa, si tratta del più straordinario spaccato della società di un municipio italico che ci sia pervenuto (Coarelli-La Regina). Ebbene, io credo che questo “straordinario spaccato” debba essere convenientemente valorizzato. Avanzo per l’intanto qualche modesta proposta.
ALCUNE PROPOSTE PER LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO
Credo sia raccomandabile di evitare il sapere frammentario, che alla prova dei fatti si dimostra essere poco prolifico; mentre invece sarebbe necessario trovare le modalità per proporre l’offerta culturale rappresentata dal Patrimonio archeologico larinate in un modo più attraente, atto a raccontare una civiltà antica nelle sue diversificate manifestazioni.
Non disponiamo purtroppo, a meno che non venga fuori all’improvviso, di uno scrittore e divulgatore della consistenza dell’autore di Viteliú, che sappia narrare e diffondere una storia legata a questo nostro territorio. Ma ovviamente i Frentani non sono i Sanniti Pentri, e di conseguenza la loro forza di attrazione esercitata verso il visitatore forestiero più o meno interessato non potrà mai essere equiparata. Larino non sarà mai Sepino – troppo tardi, ormai – e tantomeno potrà mai esercitare l’appeal di Pietrabbondante, il cui teatro è un unicum. Siti archeologici di notevole interesse, certamente, che tuttavia confinano il richiamo di quello che hanno rappresentato ad una ben preciso ambito storico. Larino è cosa diversa; essa potrebbe dispiegare, malgrado tutti gli accidenti, un possibile ventaglio che si compone di molte stecche. È invece vitale mettere in opera le attitudini per connettere tra loro queste stecche con diversificati saperi e di imperniarle a un “qualcosa” o “qualcuno” che abbia il necessario spessore a che questo ventaglio possa mettersi un funzione e fare aria; che cioè sia universalmente riconosciuto e perciò invogli a venire a visitare i resti, seppure ancora molto maltenuti, della città antica, e che ne rimanga impressionato tanto da essere interessato a divulgarne altrove le peculiarità e il valore. Per mio conto quel “qualcuno” non può essere che Marco Tullio Cicerone. Faccio qualche esempio, che mi ha tenuto impegnato di recente:
nella Pro Cluentio l’Arpinate ci riporta notizie piuttosto dettagliate sul culto di Marte, che è poi intimamente legato alle mitiche origini di queste nostre civiltà di origine sabellica, il ver sacrum. Da qui si potrebbe partire per pubblicare una Guida archeologica – un titolo potrebbe essere “Cicerone racconta Larino” –, e quindi dar vita a un circuito di siti, del quale farebbe da “cicerone” Cicerone stesso, con le sue medesime parole; ed allora si potrebbe cominciare quello che potremmo definire l’ “Itinerario dei Culti” dall’area sacra di Via Jovine – che andrebbe definitivamente liberata dalla ‘jungla’ –, proseguire verso l’area del Foro, dove si crede sorgesse un tempio dedicato a Marte, continuare verso il Centro storico medievale, nel quale riconosciamo un paio di epigrafi murate all’esterno, ma anche all’interno, di alcune case, che ci riportano interessanti notizie legate a quell’epoca storica nella quale si crearono due fazioni fieramente contrapposte. Dal culto pagano si potrebbe passare a quello cristiano, incentrato sulle vicende dei Martiri Larinesi.
Lo stesso discorso vale per altri manufatti e siti storici: l’ “Itinerario della Lupa” (o “del mito di Roma”), che rimanda anche alla figura di Cloanto, uno dei compagni di Enea, e quindi ad altro capolavoro della Letteratura latina, l’Eneide di Virgilio. In definitiva, occorrerebbe dove possibile “ciceronizzare” il patrimonio archeologico cittadino e fare di quello che potrebbe essere un punto debole – non la fiera contrapposizione, ma il legame con Roma – un punto di forza, e in questa unione con Roma che affonda nel mito non è possibile tralasciare, a mio modo di vedere, ciò che nel corso dei secoli i Papi hanno determinato di fare, a cominciare dalla lettera di Gelasio I che dispone la consacrazione di un antichissimo luogo di culto dedicato all’Arcangelo Michele nella Diocesi larinese. Ed allora, da queste pagine credo sia doveroso rivolgere un appello alle Autorità ecclesiastiche: liberate le piscine limarie di Via Cicerone, le uniche strutture coperte di età romana di cui finora disponiamo, dalle loro funzioni poco nobili (magazzini e impianti) e ridate vita, in qualche modo, alla adiacente chiesa micaelica di Sant’Angelo a Palazzo, pur essa ubicata in una cisterna dell’imponente castellum aquæ romano. Rendete poi fruibile al pubblico l’intero complesso sottostante la Chiesa parrocchiale della Madonna delle Grazie.
CONCLUSIONE
Per concludere, tornando all’oggetto principale di queste sintetiche note – l’Anfiteatro romano –, mi auguro che per un sussulto di orgoglio, o quantomeno solamente per la tranquillità delle ossa disperse e mai reperite del nostro bimillenario Benefattore, i responsabili della Soprintendenza molisana si diano una mossa. In caso contrario, una proposta sconsolata e certamente provocatoria: che si riattino la fabbrica di laterizi tardoantica e la calcara di età altomedievale, in modo che si possa comodamente disporre di tutto il materiale edile utile e necessario ad erigere un degno monumento, al centro dell’Arena o altrove, all’incuria e alla negligenza.
Nel frattempo, ancorché sicuramente di religio pagana, sarà mia cura far celebrare una Messa di suffragio per la pace dell’anima del nostro Capito.
(Foto e disegni tratti da pubblicazioni della Soprintendenza archeologica molisana; foto storiche: Pilone e dal web)