LARINO. In occasione del dies natalis di Padre Pio da Pietrelcina siamo lieti di pubblicare sulle nostre colonne la ricostruzione, estromessa dall’Epistolario ufficiale del santo, di quel periodo storico che va dal 1904 al 1911 in cui Francesco Forgione, Fra Pio ebbe modo più volte e in diverse occasioni di ‘fermarsi’ in Molise partendo dal convento di Sant’Elia a Pianisi fino alla sua ‘quaresima’ autunnale in quel di Venafro. E nel mezzo le trasferte a Campobasso e a Casacalenda, l’anno a Serracapriola (allora diocesi di Larino), con brevi puntate nella stessa città frentana, a Termoli e Santa Croce di Magliano.
L’autore di questo viaggio che ‘formò lo spirito e l’intelletto’ del giovane e gracile fra Pio, è lo studioso e devoto del santo, Pino Miscione che con dovizia di particolari, mai banali, lascia ai nostri lettori, credenti o non credenti, tracce di una storia destinata dall’Alto a fare di un povero fraticello, peraltro malato, il santo che da anni tanti venerano e per suo tramite, chiedono al buon Dio grazie su grazie.
“Sfoglio il primo volume dell’Epistolario e non trovo neanche una riga che ci parli della permanenza di Fra Pio da Pietrelcina in terra molisana. Vi sono assenti difatti tutte le lettere antecedenti al gennaio 1910, quando i curatori della sua corrispondenza, tra i quali il nostro Alessandro da Ripabottoni, fanno iniziare lo scambio epistolare coi suoi direttori d’anima. Negli altri volumi solo trascurabili accenni, del tutto irrilevanti. In altre opere qualche solitaria, laconica missiva, mai inclusa nella raccolta ufficiale. Eppure è qui da noi che il futuro Santo formò lo spirito e l’intelletto, sin da quando, dopo l’anno di noviziato a Morcone, durante il quale Francesco Forgione si chiamò Fra Pio, fu trasferito con un altro suo compagno al convento di Sant’Elia a Pianisi, dove si trattenne per oltre tre anni, per iniziare la “rettorica”, cioè il ginnasio, e proseguire con la “filosofica”, cioè il liceo.
«Stazione di Campobasso» vibrava la voce dell’altoparlante in quella gelida, nevata mattina di lunedì 25 gennaio 1904: aveva allora sedici anni. Montò sulla corriera; poi a piedi nudi nel nevischio fino al convento santeliano di San Francesco. Da quel poggio appartato, allora un po’ discosto dal paese, rimirava all’orizzonte, per la prima volta nella sua vita, la lunga lingua di roccia poggiata sul Tavoliere delle Puglie: il monte Gargano. In una spelonca incuneata in quella massa possente, sul finire del V secolo, era apparso l’Arcangelo che aveva dato il nome all’amata provincia religiosa.
Qui a Pianisi, mentre nello studio e nella preghiera si faceva sempre più frate cappuccino, ora assalito dal demonio che gli si presentava sotto il sembiante di un mostruoso cane, ora sperimentando il “martirio dell’anima”, come pure le prime “celesti visioni”, cominciava ad avere percezione di cosa il Signore gli chiedesse per gli anni a venire: “salire” quella montagna riarsa e pietrosa che segnando il confine tra cielo e terra occludeva l’ultimo sguardo impedendo alle sue pupille di tuffarsi nella distesa spumeggiante dell’acqua marina. «È a Sant’Elia a Pianisi che fra Pio predice l’apertura del convento di San Giovanni Rotondo – scrivono due tra i suoi più accreditati biografi –. Dice inoltre ai confratelli che, di lì a dieci anni, egli sarebbe stato assegnato dai Superiori a quella comunità monastica, cosa che appunto accadde nel settembre del 1916».
Da Sant’Elia lo mandarono qualche volta a dare una mano ai frati della chiesa campobassana di Santa Maria del Monte, in faccia a Castel Monforte. Per arrivarvi era necessario inerpicarsi lungo una tortuosa scalinata e poi proseguire sullo sterrato, a volte fangoso. Faticosa impresa per un giovane che soffriva di stipsi cronica, come difatti ci riporta una giovane in una sua testimonianza raccolta da un altro suo biografo, che così prostrato lo vide intento in quell’ascesa proibitiva. Nell’attuale capoluogo molisano questo difficile cammino è ancor oggi chiamato “salita del monte”: un arduo andar su, che ne presagiva un altro, verso il sommo del monte apulo che di lì a qualche anno avrebbe incominciato.
In questo tempio mariano, il 15 agosto 1905, solennità dell’Assunta, gli apparve la Madre di Dio, che infine gli disvelava il significato di quella che sarebbe stata la “missione grandissima” – inaudita, unica e irripetibile – che il Cielo gli stava affidando: “salire il monte” come a dire “salire all’altare” vivendo nella propria carne l’Immolazione della Vittima. Dischiudere una via di sacrificio e di riparazione con la sua stessa esistenza su questa terra; e nell’altra, sostenere l’uomo dei dolori, intercedere per lui, per quel Consacrato che nell’ultimo tempo avrebbe analogamente “salito il monte”, quando anche la Chiesa rimanente avrebbe ripercorso l’erta del Calvario per fare ingresso nella Gerusalemme nuova. Questo nostro tempo, in cui meglio si vanno delineando gli eventi preannunciati a Fatima, di questo ci parla.
Nel settembre del 1905, da Sant’Elia eccolo muoversi a piedi per una gita scolastica, con il solito drappello di compagni e precettori, alla volta del convento di Serracapriola. A Santa Croce di Magliano li sorprese una pioggerella battente, per cui dovettero riparare in casa dell’arciprete. Entrava in questo modo letteralmente “burrascoso” – e per la prima volta – nel territorio della diocesi di Larino. Il giorno appresso li vediamo finalmente arrivare al convento serrano, ove si trattennero qualche giorno a vendemmiare; e proprio in quell’occasione il nostro Cappuccino prese una sbronza senza bere un goccio di vino, per via dei vapori alcolici inalati.
Qualche giorno dopo li ritroviamo ancora da quelle parti: nell’ultima domenica di settembre, a Casacalenda si festeggiava la Madonna della Difesa, per ricordare l’arrivo della preziosa effigie della Vergine assisa con in grembo il Bambino, come ancor oggi avviene. Ma non è dato di sapere con certezza se effettivamente fecero in tempo a spingersi fino alla chiesetta di campagna. Un anno dopo ancora a Casacalenda, ospitati nel convento di Sant’Onofrio su invito del dottor Francesco Nardacchione, loro medico curante. Ritentarono l’impresa di raggiungere il bosco della Difesa, ma anche stavolta dovettero ritirarsi per l’acqua che copiosa scese dal cielo. Risultato: un forte raffreddore e una fastidiosa tosse. «Da allora – racconterà un giorno – sono incominciati i mali e le sofferenze che mi hanno accompagnato per tutta la vita».
Per un’ultima volta rintracciamo Fra Pio e compagni di nuovo a Casacalenda, all’inizio del novembre del 1907. Vi si recavano per i funerali della madre del dottor Nardacchione. Anche in quell’occasione un rovescio autunnale sorprese il giovane Frate che, sudato per la partecipazione al corteo funebre, cadde ammalato e nuovamente dovette ricoverarsi nell’eremo di Sant’Onofrio, ma per restarvi una ventina di giorni e passa. Visitato dal medico colpito dal lutto, gli venne diagnosticata quella patologia che si sarebbe ripresentata altre volte nei referti medici: bronco-alveolite all’apice sinistro, alla quale si consigliava di porre rimedio con «vita all’aperto e aria nativa».
Ma era nel frattempo arrivato il lieto giorno tanto atteso: la domenica 27 gennaio 1907, sempre a Sant’Elia, emise finalmente la professione dei voti solenni, con la quale s’impegnava a mantenersi per il resto della sua vita alla sequela di Cristo, secondo la Regola di San Francesco, in perfetta obbedienza, povertà e castità: «Io, F. Pio da Pietrelcina, Studente Cappuccino, avendo compiuto i quattro anni di Religione, … essendo oggi in età di 19 anni mesi 8 e giorni due … ho fatto la mia professione solenne nel convento di S. Elia a Pianisi … e perciò mi considero quindi innanzi, come legato per sempre coi voti dell’ordine dei Cappuccini, sotto la Regola del Serafico Padre».
Compartecipando alla gioia per questo felice evento, noi continuiamo a ricalcar le orme impresse dal nostro giovane Professo per le contrade molisane: pur non avendo mai dato gli esami finali di filosofia, nell’ottobre 1907 venne ammesso comunque allo studio della teologia. Trasferito con altri cinque suoi compagni di religione al convento di Serracapriola, e per un anno intero. Se li andò a prendere il padre Agostino da San Marco in Lamis in persona, che a Serra gli avrebbe fatto da precettore. A bordo della carrozza ferroviaria, transitando ancora per Casacalenda, Larino, fino alla stazione di Termoli, dove la sua presenza è riportata da un altro suo confratello che gli sarebbe rimasto a lungo amico, il padre Raffaele da Sant’Elia: «in quell’incontro subito notai la differenza tra lui e gli altri perché, mentre tutti ci scambiammo qualche parola allegra ed affettuosa, Fra Pio, occhi bassi e in silenzio, con la bisaccia sulle spalle, ci salutò con un semplice inchino e nulla disse». Da Termoli a Chieuti Scalo e – a piedi o in groppa a un asino, non sappiamo – fino a Serracapriola, nell’unico convento ancora attivo della diocesi larinese.
Dal vetro della sua nuova cella, sempre più imponente, grave nella sua massa compatta, preciso nel suo profilo increspato che la bruma non più riusciva ad ascondere, di nuovo il Gargano: si appressava dunque quel monte di cui raggiunger la cima, ed anzi era lui stesso che all’ascesa di quello sperone roccioso s’approssimava; sempre più vicini nel tempo croce e delizia per la sua ordinazione sacerdotale, sempre più imminente e necessaria la sua riparazione agli oltraggi portati al Divino Sacramento dai “macellai” in talare: «Le anime da me più predilette, messe alla prova mi vengono meno, le deboli si abbandonano all’isgomento ed alla disperazione, le forti si vanno rilassando a poco a poco. La mia casa è divenuta per molti un teatro di divertimenti». È la lamentazione del Nostro Salvatore, raccolta dal Frate cappuccino e messa per iscritto in una confidenza al suo amato padre Agostino, di alcuni anni dopo.
26 Maggio 1908: festa patronale a Larino. In testa al corteo, coperto dai drappi di un pomposo baldacchino, fra Bernardino di Milia vescovo cappuccino; ai lati due chierici che gli reggono i lembi del piviale. Poi il busto argenteo del santo Patrono, anticipato da tutti gli altri simulacri di quelli venerati nella città frentana. Qualche volenteroso che ne abbia permesso e desiderio, si metta pure ad esplorare tra il materiale fotografico dell’Archivio Pilone, se per caso nel corteo è distinguibile qualche giovane fratino che abbia i tratti somatici di Fra Pio. Era difatti d’uso consueto che i fraticelli dell’unico cenobio cappuccino risparmiato dalla soppressione sabauda del 1866 si unissero anch’essi al corteo processionale in occasione della festa del Protettore della diocesi.
Eppure qualche frammento risparmiato dall’oblio della memoria, che rende sincera in ogni caso la presenza di Fra Pio a Larino ecco che salta fuori: il sindaco Pietrantonio che, molti anni dopo, recatosi in visita a San Giovanni Rotondo per ottenere finanziamenti in previsione della riapertura del cenobio cappuccino larinese, avvenuta poi nel 1948 – in fin dei conti era quella la “culla” della Provincia di Sant’Angelo –, secondo alcuni autori avrebbe ricevuto, proprio dal diretto interessato, la confidenza inaspettata: «ho visitato in gioventù il convento larinese della Santa Croce più di una volta».
Ma ritornarono i malanni: Pasqua 1908, forte emicrania. Luglio di quell’anno, caldo opprimente a Serra: fiaccato dalla canicola, scrisse alla famiglia dei suoi “infiniti affanni”. I superiori, messi in allarme, telegrafarono al parroco di Pietrelcina affinché qualcuno si venisse a riprendere l’infermo. Fu il padre Grazio ad assumersi l’incarico, com’era accaduto diverse altre volte. Una carrozza li portò fino alla stazione di Larino, per farli montare nello scompartimento di prima classe, scelto per far star più comodo il giovane malmesso in salute, finalmente al riparo dei raggi del sole. Avrebbe ripercorso a ritroso, di lì a qualche ora, come in un realistico flash-back, i luoghi in cui la piena adolescenza aveva ceduto il passo alla sua prima giovinezza: Casacalenda, Sant’Elia a Pianisi, Campobasso. In questo modo, piuttosto mesto e sconfortante – da malato –, giungeva a termine la permanenza del futuro Santo con le stimmate nella diocesi di Larino.
Tra il luglio e l’ottobre del 1909 lo rivediamo, per fuggevole spazio di tempo, ancora a Campobasso nel Santuario dei Monti dove gli era apparsa la Vergine. Era infatti desiderio del Cielo che la sua ordinazione diaconale avvenisse nel capoluogo molisano. Ma ciò, per plurime e inaspettate ragioni, tra le quali quelle ricorrenti relative alla sua infermità, non fu infine consentito. Fra Pio Forgione divenne Padre Pio da Pietrelcina, abbracciando per tutta la vita la croce del sacerdozio, la mattina del 10 agosto 1910, nel sacello dei Canonici del duomo di Benevento.
Sempre per la sua salute assai compromessa, che minacciava una “catastrofe imminente”, cioè morte certa – questa la diagnosi di pochi giorni prima, stilata da un luminare della medicina in quel di Napoli –, già sacerdote attese la fine trattenendosi ancora per poco in territorio molisano, pervenendo nel convento di Venafro, dove rimase per quaranta giorni, dal 27 ottobre al 7 dicembre 1911: una sua personalissima quaresima, durante la quale estasi paradisiache si alternavano a infernali vessazioni diaboliche e suo unico alimento, non solo spirituale, fu la Santa Eucaristia.
Il giorno di vigilia della solennità della Immacolata Concezione di Maria, al primo indorare del monte Corno, scortato dal suo padre spirituale che lo aveva in familiarità sin dagli anni serrani, lasciò per sempre il territorio del piccolo Molise, per trovare rifugio, ancora una volta, nella sua terra nativa. L’ultimo pensiero, l’ultimo riguardo verso i monti l’ebbe – vogliamo credere – per la Madonna Addolorata di Castelpetroso apparsa quando egli era in fasce tra quelle balze boscose vedute di lontano, che gli ravvivò nell’animo la “missione grandissima” ricevuta dalla Vergine Madre in questa piccola terra italiana.
Ed eccomi qui a concludere, da suo devoto e studioso. Anno 2022: l’incaricato m’introduce nell’ampia sala della Biblioteca “Sacro Cuore” annessa al convento campobassano di piazza San Francesco. Mi dà anche facoltà di prender visione di scritti riservati del suo massimo biografo, il padre Alessandro da Ripabottoni, che questa Biblioteca diresse per quasi trent’anni. Metto i miei occhi su minute annotazioni, disciolte postille, pensieri estemporanei da lui vergati a penna, qua e là abbandonati – si direbbe – come segnacolo a futura memoria; prendo visione di parti censurate, documenti piuttosto confidenziali, tra cui lettere fattegli pervenire da devoti del Santo che pure hanno scritto di lui. Mi son fatto l’idea che in questi faldoni, in qualche altro scaffale o cassetto adoperato dal frate biografo sia riposto qualche ulteriore mistero impenetrabile che lo riguarda. “Gli archivi non svelano i loro segreti tutto in una volta”, aveva lasciato scritto difatti padre Alessandro.
«La mia missione finirà quando sulla terra non si celebrerà più la Messa». Missione, dunque, in buona parte post mortem; e ci siamo quasi. Ora l’incaricato depone sul tavolo l’ennesima pila di titoli richiesti. Di nuovo sfoglio il primo volume dell’Epistolario, e non trovo neanche una riga che ci parli della permanenza di Padre Pio da Pietrelcina in questa nostra terra molisana …
Pino Miscione
(foto dello stesso autore, una tratta dall’archivio Valente e altre di libero accesso su internet)