LARINO. Una particolare superstizione interessò anche alcune località della diocesi di Larino nel periodo dell’episcopato di mons. Belisario Balduino (1555-1591).
Il Presule, noto soprattutto per aver aperto nella città frentana (26 gennaio 1564) il Seminario (filosofico-teologico), primo della Cristianità a norma del Concilio di Trento, fu costretto ad affrontare una situazione difficilissima causata dagli Albanesi, giunti in questa zona nella seconda metà del Quattrocento e che, circa un secolo dopo, cercarono di ricreare qui le antiche usanze lasciate in patria.
Si tratta di pratiche assurde consistenti nell’esumazione di cadaveri sepolti non più di quattro mesi prima, cospargerli d’olio, bruciarli ed interrare ciò che di essi restava, per evitare o perlomeno ridurre, in tal modo, la diffusione delle epidemie. Si pensava, infatti, che di notte dai corpi di alcuni defunti uscissero dei “gattoni” che, girando tra le abitazioni, spargevano contagio e morte.
Un “dossier”, racchiuso nel manoscritto “Brancacciano” della Biblioteca Nazionale di Napoli, contiene documenti legati a vicende, di vario genere, delle comunità albanesi presenti nella diocesi frentana che mons. Balduino inviò, nel marzo del 1581, alla nascente Congregazione dei Greci. La citata documentazione è in copia e comprende i rapporti intercorsi tra il benemerito Vescovo di Larino e quelle comunità a partire dal 1560.
In una lunga lettera datata 10 gennaio 1560 ed inviata al Vicario generale della diocesi di Larino dal rappresentante degli Albanesi dimoranti in Campomarino, d’intesa con “il Camerlengo, sindaci et Università” dello stesso centro, si rileva in forma davvero impressionante la richiesta del nullaosta per “[…] disopricare detti morti […], che si possano bruciare, et fare come è stato fatto in Chieuti […] et in altro luoco, che se non se fa così sarà necessario dishabitare da detta terra […]”.
Nella parte iniziale della stessa missiva si nota che “vedendose […] la gente morire sempre […] si è posto guardie la notte, et così havemo visto dalle ecclesie uscire vampe de foco, il quale noi dicimo il gatto, di modo che tenemo suspitione che alcuno che è morto per il passato non sia deventato lo gatto, et va magnando tanti homeni et donne, che morsero […]”.
Il 19 aprile seguente il Vicario dispose un’indagine con l’ascolto di testimoni anche fuori dall’abitato di Campomarino. Dalle deposizioni rilasciate nel gennaio del 1561, emersero precise dichiarazioni sull’esumazione e bruciatura di cadaveri avvenute, in particolare, nell’estate dell’anno prima (1560). Alcuni testi riferirono che diversi cadaveri furono esumati e poi nuovamente interrati, perché sospettati di essere “gattoni”. I decessi, a loro dire, erano causati dal gatto che “andava per tutta la notte, et quanti ne bruciava, tanti ne faceva morire”. Ovviamente tali pratiche avvenivano senza l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica competente.
Intanto, nel maggio del 1560, lo stesso mons. Balduino rivolgendosi al domenicano Tommaso Scotto, Commissario Generale della Santa Inquisizione di Roma, tra l’altro, scriveva: “…in un luoco della mia diocesi […] detto Campo Marino li cittadini sono andati a una chiesa del medesimo luoco et hanno dessutterrati et cavati dalle sepolture molti corpi morti fra li quali cercavano un corpo che loro dicevano esservi intrato il demonio, et che poi quillo corpo la notte usciva dalla sepoltura et andava per le case, uccidendo gli homini […]. Et lo chiamano questo fra di loro il gatto […]. Mons. Balduino conclude affermando: “Ne ho detenuti et detengo alcuni carcerati, alcuni più colpevoli et principali. […] sono albanesi, et greci, loro hanno detto che non vi credevano e non vi crederiano più, ma che l’hanno fatto perché così l’hanno costumato […] li loro antecessori. Et che, si hanno errati, cercano li sia data la penitenza spiritualmente. E’ gente di mala natura et perciò mi bisogna proceder con destrezza et bel modo…”.
Sembra proprio che dopo il 1560 il fenomeno, almeno fra gli Albanesi di Campomarino, scomparve. Tuttavia mons. Balduino continuò a vigilare durante la sua lunga permanenza a Larino che si concluse col decesso avvenuto nel 1591.
Il nutrito carteggio prodotto in quell’occasione contribuì notevolmente nel porre, attraverso un apposito canone di Papa Pio IV nel Breve “Romanus Pontifex” (1564), il divieto dell’esumazione e bruciatura dei cadaveri, norma riversata, nel 1567, nel Sinodo di Benevento, sede metropolitana di cui la diocesi di Larino era suffraganea.
Per la compilazione di questa breve nota mi sono avvalso dei Saggi:
– “Comunità Greco-Albanesi in Diocesi di Larino, aspetti ecclesiali e di costume (sec. XVI)”, di Emidio Tomai-Pitinca, apparso sul ‘Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata’, XXXVIII (1984), pp. 19-27;
– “Insediamenti albanesi nella Daunia tardo medievale”, di Danila A. R. Fiorella, in Atti del 18° Convegno Nazionale “La Capitanata tra medioevo ed età moderna (secc. XIII-XVII)”, San Severo 29-30 novembre 1997, pp. 115-121;
– “Il Vescovo e il ‘gatto’: Credenze Albanesi e disciplinamento ecclesiastico nell’Italia Meridionale del XVI secolo”, di Tommaso Braccini, in ‘Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata’, 17, (2020), pp. 21-54.
Quest’ultimo, Docente di Filologia classica e Folclore dell’antichità e del medioevo greco presso l’Università di Siena, ha programmato una visita nell’Archivio Storico Diocesano in cui opero per approfondire le ricerche sull’argomento.
Giuseppe Mammarella
Direttore dell’Archivio storico diocesano