LARINO. Lourdes, l’acqua che salva è l’ultima tappa della tetralogia dello spirito che l’amico e studioso Pino Miscione ci ha ‘offerto’ in questo lungo mese di maggio. Un viaggio personale, che dal fuoco arriva all’acqua. Un invito infondo per tutti a ritrovare se stessi. Ringrazio a nome di tutta la redazione Pino per i suoi scritti e vi lascio alla lettura.
“Sia che si scenda al piano, sia per converso che si salga ai monti, per noi di questa città frentana l’incontro è ineludibile: la Madonna di Lourdes incrocia il nostro cammino e ci accompagna nel viaggio più o meno lungo che ci attende. Per disparate ragioni mi è più usitata la Madonnina che si avvista in fondo al viadotto che porta alla pianura, posata su un piedistallo all’interno di una grotta fatta di acconce pietre di tufo, all’imbocco della breve calata che mena al convento dei Cappuccini. Ma il calendario diffuso in occasione di questo maggio, che va a chiudere i suoi giorni, c’impone di ascendere, almeno col pensiero, verso il monte dove sta l’altra Donna tota pulchra.
Iconografia familiare e consueta fin dagli anni della prima infanzia: chi non ha avuto una nonna, una madre o una vecchia zia devota della Vergine che teneva sul comò o su una mensola di casa una piccola Madonna che si affacciava da una profonda nicchia incavata nella plastica o nel sughero? Così difatti nel mio caso, ché mia nonna, alla quale debbo il solido formarsi in me della mia fede cattolica, esibiva questa sua Grotta con Madonnina tra il suo armamentario sacro fatto di santini spiegazzati, rosari attorcigliati e ammennicoli vari portati via da qualche suo pellegrinaggio a corto raggio.
Ma si presentò un giorno l’opportunità impensata in cui determinai di rendermi conto de visu. E però anomalo davvero che un viaggiatore proveniente dall’Italia si rechi a Lourdes transitando da Euskadi, il Paese Basco. Tuttavia a quell’epoca il mio cammino di fede era ai suoi primi ritrovati passi, e quando il motore rombò da Bilbao per spingersi verso San Sebastián, la Guascogna e i Pirenei francesi, più vividi delle mie reminiscenze sacre erano gli orizzonti letterari, la pesca di trote nei torrenti pirenaici di cui novella uno scrittore americano infatuato della terra iberica. Oltremodo distratto dai tori di Pamplona più che interessato agli itinerari spirituali, progettai questo lungo dirottamento in terra franca prima del mio reditus in patria, ed ebbi davanti a me quella Grotta, vorrei dire “in carne ed ossa”.
Lourdes è uno dei santuari più frequentati al mondo, non solo per quanto riguarda la religione cristiana, ma tutti i credi. Nei santuari, luoghi che il Cielo stesso ha indicato agli uomini, è possibile riscoprire il sentimento religioso nella sua vera essenza, svincolato da ogni forma di ritualità che la pratica nelle parrocchie rende talvolta fatto automatico, che si riproduce senza una scelta soggettiva meditata, fino a farlo diventare in certi casi più sfavorevoli un avvenimento ciclico arido e infecondo, quando non addirittura deformante allorché la dottrina cattolica viene alterata ed anche la Vergine Maria offesa nei suoi privilegi dogmatici. I santuari mariani in particolare, appaiono poi essere molto più refrattari ad ogni crisi, anche a quella drammatica di questo nostro ultimo evo, poiché i fedeli vi cercano la Madre. E di Mamma, anche quella celeste, non può che essercene una sola.
Ed eccomi qui: supero il ponte Saint-Michel, varco il cancello del Domaine, e mi trovo d’un tratto nella zona sacra che attornia la Grotta, con le sue basiliche – alcune sotterranee –, mentre mi lascio alle spalle la città caotica dove fervono i commerci ed è tutta una selva di insegne e un poliglotta cianciar di voci. Qui invece silenzio, rispetto, effluvio di sacralità dappertutto; è proibito anche fumare. Innanzi a me, in lontananza, si eleva su un tozzo pilastro la Vierge couronnée; alla mia destra, oltre un prato ben curato, scivola placido nelle sue acque verdoline, ora quasi tacito se non per il quieto mormorio delle correnti, il Gave de Pau, e una leggera brezza muove le fronde dei pioppi che costeggiano questo torrente dal nome che mi si fa a poco a poco familiare. È qui che avvenne il fatto: all’epoca un luogo in aperta campagna, punteggiato qua e là da qualche vecchio mulino ad acqua, i cui tetti di vecchia ardesia ancora fanno capolino tra le costruzioni più recenti, dove l’11 febbraio 1858 Jeanne Abadie detta Baloume e le due sorelle Soubirous, una famiglia di ex mugnai caduta in povertà e malridotta come poche altre, si recarono per cercar legna secca e vecchie ossa, questi frutti della morte che eran l’ultima risorsa dei poveri.
Bernadette era la maggiore delle due sorelle; aveva da poco compiuto 14 anni: una ragazzetta minuta, povera d’istruzione ma ricca di buon senso e istinto pratico; eppure per molti era la bonne à rien. Quell’11 febbraio – era un giovedì – poco più avanti, lì dove un canale manda le sue acque nel Gave, davanti a un antro che i locali chiamavano tute aux cochons perché rifugio del branco comunale dei porci, coperto tuttavia da un rosaio selvatico che si aggrappava a una parete rocciosa piuttosto alta, detta Massabielle – la vecchia roccia –, ecco un soffio che passa.
E poi un cespuglio di rovi che s’agita, e in una luce un dolce sorriso, quello di una giovane donna, che allarga le braccia inclinandosi in un gesto d’accoglienza che sembra dire: “avvicinatevi”. D’istinto Bernadette cade in ginocchio con l’intenzione di recitare il Rosario, ma la ragazza la previene e mostra di avere anche lei una corona bianca con una grande croce splendente. Insieme si mettono a dire quella semplice preghiera. Chi era quella giovane donna? Bernadette, confusa, da molti deplorata e beffeggiata, non osa pensare all’inimmaginabile e si contenta di chiamarla semplicemente Aqueró, che nella parlata patois del luogo vuol dire “quella là”.
Nel corso della nona apparizione del 25 febbraio un fatto nuovo, che avrebbe segnato indelebilmente la storia del Santuario: in presenza di molti testimoni, che nulla vedono di soprannaturali presenze, su indicazione di quella giovane donna si mette a cercare nei pressi della Grotta, e dal suolo fangoso trae una manciata di limo; poi di nuovo a grattare, fino a scorgere dell’acqua, che dopo alcuni tentativi – l’acqua era sporca – inizia a bere, imbrattandosi il viso di quel fango rossastro. «Anat béoué en’a houn è b’y laoua. Andate a bere alla fonte e a lavarvi» le aveva detto Aqueró. Nel pomeriggio di quello stesso giorno in diversi si recheranno alla Grotta a riempire minuscole boccette di quell’acqua. Le prime di milioni di altre.
Il vero nome della giovinetta soltanto nel corso della sedicesima apparizione: è la solennità dell’Annunciazione del Signore, e di prima mattina la veggente osa domandare – sempre in dialetto – ciò che le altre volte non aveva osato: «Mademoiselle, boulet aoué la bountat de me disé que es, s’il bou plait? Signorina, volete avere la bontà di dirmi chi siete, per piacere?». Ripete quella frase altre due volte, al cospetto della “Signorina” di luce che le sorride. Ma alla quarta volta Aqueró non ride più. Passa il suo rosario nel braccio destro; poi le sue mani giunte si aprono e si stendono verso terra. Con uno stesso movimento le unisce all’altezza del petto, alza gli occhi al cielo e dice: «Que soy era Immaculada Councepciou. Io sono l’Immacolata Concezione».
Poi la comunicazione di quel nome per lei bizzarro all’abbé Peyramale, il quale vacilla incredulo, ma che riporta fedelmente al vescovo; quindi l’indagine ecclesiastica, il primo miracolo, il primo di una lunga serie. Con molta fatica, tra mille diffidenze, si dà soddisfazione alla richiesta della Vergine formulata nell’apparizione del 2 marzo: «Andate a dire ai preti che si venga qui in processione e che si costruisca una cappella». Alla fine, vi si edificheranno ben cinque chiese.
Quattro anni prima, l’8 dicembre 1854, il papa Pio IX aveva solennemente proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria: con l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei beati apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo, pronunziamo e definiamo: la dottrina che sostiene che la Beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale, è stata rivelata da Dio e perciò si deve credere fermamente e inviolabilmente da tutti i fedeli. L’unica definizione di fede proclamata da un pontefice che abbia ricevuto un chiaro imprimatur soprannaturale.
A ventidue anni Bernadette lasciò il Cachot, un unico locale dell’ex prigione cittadina, buio e malsano in cui abitava con l’intera sua famiglia, e fece il lungo viaggio fino a Nevers, dove entrò come postulante nel convento Saint-Gildard, casa madre delle “Suore della carità e dell’istruzione cristiana”. Qui resterà per tredici anni, fino alla morte avvenuta ai trentacinque, aggredita da ogni malattia. Poco prima di spirare si era fatta cucire sul petto un crocifisso per evitare che cadesse. Nel 1933 papa Pio XI la iscriverà nel canone dei santi. Chi salga alla cittadina borgognona a visitare il su corpo morto s’accorgerà che esso giace in una teca pressoché incorrotto.
Ma ora è il momento di compiere il rito per il quale, in fondo, sono venuto fino a queste rocce pirenaiche che, associatomi alla catena umana che si è andata formando, sfioro con le dita e adesso, fattomi più audace, meno intimidito, accarezzo con le palme delle mani come vedo fare a tanti, quasi tutti, fino a guadagnare con lo sguardo, protetta da uno spesso vetro, la sorgiva taumaturgica dalla quale gorgogliò la prima acqua che guarisce. Qualche passo ancora, ed eccomi infine davanti a Lei, la Vergine Immacolata, effigiata dalle sapienti mani dello scultore Fabisch, poggiata sull’iscrizione dorata che riproduce la rivelazione del nome eccezionale: tutta candida e pura, con le pieghe della lunga fascia azzurra che quasi Le raggiungono i piedi, ognuno dei quali è coperto da una rosa d’oro. Ha le mani giunte, intorno alle quali è intrecciata una lunga corona del Rosario; gli occhi che vedono lontano.
Non posso rinunciare ad incrociare, almeno con la mente, perché persista nella mia memoria e mi riparli nei momenti di sconforto, il suo sguardo di Madre, ora che è arrivato il tempo del congedo: supero la folla che ancora staziona davanti alla Grotta; alcuni spingono barelle, altri reggono ceri o recipienti per l’acqua della source prodigiosa. Mi procuro anch’io una bottiglietta e la riempio fino all’orlo: sarà il mio personale souvenir che ancora tengo poggiato su una mensola più al riparo. L’ho conservata così come l’ho presa, poiché nel frattempo altre bottigliette sono pervenute nelle mie mani.
Dalla medesima scaturigine miracolosa proviene l’acqua delle piscine, dove Maria si trova davanti la sofferenza degli uomini: oltre una tenda a righe verticali bianche e azzurre – i suoi colori – i malati, o chiunque altro ne faccia richiesta, vengono accompagnati a discendere quei pochi gradini nei quali i piedi s’incontrano con l’acqua. Due addetti dolcemente guidano uomini e donne, giovani e vecchi, d’ogni razza e provenienza, spesso impediti a fare anche pochi passi, fino a tuffarli in quell’acqua incorrotta. Guarigioni del corpo se ne contano a decine, ma infinitamente più numerosi sono i risanamenti dell’anima, quelli che nessun Bureau medical potrà mai verificare, nei quali tutto l’essere viene rinnovato e ricondotto a Dio, grazie a Lei, la nostra Madre celeste immune da ogni peccato, che lava ogni sozzura dell’anima e ci restituisce a nuova vita.
Con questi pensieri sedimentati nel cuore, che si riformano e rifioriscono ora che col ricordo rivado a quel mio pellegrinaggio in extremis, adesso che la mia fede è ben più salda, rinvigorita, temprata dalle prove che in questi anni non sono mai venute meno, rimetto i miei occhi su quella Grotta che fa da basamento alla neo-gotica basilica dell’Immacolata Concezione – una chiesa che stavolta si regge su Maria, più che su Pietro –, e mi par naturale intendere questo segno come un preannuncio di questi nostri tempi funesti, tempi di tregenda, nei quali il potere di Pietro è rigettato.
Diciotto apparizioni, dal febbraio al luglio di quell’anno 1858, per rivelare un mistero e indicare la via della salvezza per i tempi finali. Una mariofania tutta al femminile, come un’anticipazione del Golgotha, quando al momento della prova suprema tutti gli uomini, ad eccezione del discepolo amato, fuggirono impauriti e attorno alla Croce non restò che una piccola, intima, ma impavida folla di donne.
Ed eccoci in conclusione di questo lungo viaggio dello spirito, che abbiamo principiato da Santiago de Compostela: il sangue, e qui finiamo, a Lourdes: l’acqua che salva. Sono in tutto 870 chilometri, e da Lourdes a casa ne occorrono altri 1700. Distanza, quest’ultima, che macinai tutto d’un fiato procedendo su quattro ruote, seppure su un fondo più che comodo. Degna conclusione di questo mese di maggio dedicato alla Vergine Maria. Ci si sarà resi conto che mi son voluto fare un po’ tour operator dell’anima, e in tutta verità posso confermare che c’è in fondo una ragione teologica che mi ha spinto a organizzare il viaggio in questo modo: Santiago, Fatima, Roma e per finire Lourdes. Lungo il cammino quante nuove: salvezza e dannazione, apostasia e riparazione, sacrificio e lavacro finale. Perciò cammino dolente senza dubbio, itinerario penitenziale ed escatologico, d’altra parte già chiaramente impresso come matrice teologica nell’antica storia del popolo eletto che, ridotto in schiavitù, dal sangue all’acqua si mosse: dal segno salvifico sgorgato dalle ferite dell’agnello pasquale posto sulle case, all’acqua del mar Rosso e del Giordano, superati i quali si faceva ritorno nella Terra dei padri, quella promessa loro dal Creatore. Prima Pasqua, itinerario soteriologico completato in maniera indistruttibile e perfetta sul Calvario, donde dal costato trafitto del Signore crocifisso, nostra Pasqua, fuoriuscì proprio sangue e acqua: eucaristia e battesimo, sacrificio e lavacro. Senza di questi nessuna salvezza è possibile: le due colonne cui assicurare la navicella della Chiesa in questo mare procelloso.
Un mese in compagnia a legger quel che avevo da dirvi, e per questo ringrazio chi ha avuto la bontà di ospitarmi. Ma le letture, anche quelle buone, fondamentali, devono accompagnare e confermare né mai possono sostituire la concretezza del pellegrinare vero, che è pur sempre prefigurazione dell’ultimo, definitivo esodo; e perciò anche questi brevi appunti dell’anima che ho steso vanno compresi necessariamente in questo senso. Voglio per tutto ciò sperare che qualcuno dei miei lettori avrà voglia di rifare questo viaggio dal sangue all’acqua non solo nella finzione della memoria o della lettura seppur partecipata, ma nella realtà vivente dei giorni a venire, così da completare il lungo viaggio di ritorno fino a Casa, quella vera dove dimora il Padre. Vigila dall’alto Colei che in certo modo mi sprona a dirvelo: di questo viaggio non breve pago io il conto.
Pino Miscione