LARINO. Secondo appuntamento con lo studioso Pino Miscione e la sua tetralogia dello spirito che questa volta ci porta in Portogallo, a Fatima proprio nel giorno in cui si ricorda la prima apparizione della Signora vestita di bianco ai tre pastorelli.
“Centocinque anni fa, la prima di sei volte. 13 maggio 1917: la Signora vestita di bianco si mostrò a tre bambini intenti a custodire il loro gregge di pecore alla pastura, apparendo sopra le fronde di un leccio che spuntava nel mezzo di una soleggiata radura, nota dalle mappe come Cova da Iria, che in antica lingua portoghese vuol dire “conca della pace”. Non è una novità che il Cielo scelga sempre i più piccoli – piccoli di età o anche di condizione sociale – per affidare all’umanità i suoi messaggi. E nemmeno desti meraviglia che un avvenimento così pregno di significati per i decenni a venire, e fino a questi nostri sventurati giorni, sia accaduto in un posto così disperso e appartato di questo nostro mondo.
Noi che spesso ci dogliamo di abitare un lembo d’Italia “che non esiste” avremmo di che riflettere, perché i disegni di Dio sono quasi sempre imperscrutabili, e sovente vengono rimessi nelle mani di umili persone provenienti da posti anonimi, affinché vengano ricomposti e meglio riconosciuti nella loro eccezionale rilevanza.
Nel mio lungo andare itinerante per le città, note o misconosciute, della Penisola iberica, è capitato d’indugiare a lungo proprio in quella terra “onde a terra se acaba e o mar começa”. Verso di Luís de Camões, il maggior poeta lusitano, inciso su un cippo drizzato al limitare del Cabo da Roca, all’estremo occaso di questo nostro continente sempre più avvolto da una caligine di tenebra. Dopo una sosta di alcuni giorni a Lisbona, città che ammalia per la sua anima malinconica e intimistica, eccomi continuare più a nord, verso la località dove la Madonna apparve.
Ai primi del Novecento, Fatima era un luogo confinato in uno stato d’irrilevanza plurisecolare. Il suo nome arabeggiante gli deriva da una serva musulmana della prima regina del Portogallo, Mafalda di Savoia, che la convertì al cristianesimo. Assurta a notorietà mondiale, dopo ben sette secoli, grazie a quei tre pastorelli, Lúcia dos Santos, la maggiore, e i suoi cugini, Francisco e Jacinta Marto, e al messaggio – i cosiddetti “segreti” – che la Madre di Dio consegnò nelle loro mani innocenti.
Ho fatto in tempo a visitare questo Santuario prima che il potere massonico, che ha infestato anche qui il clero locale, pure ai suoi vertici, sfrenasse i suoi impulsi nefandi fino a commissionare i deliri architettonici che hanno deturpato i luoghi di fede di mezzo mondo. La “basilica” della Santissima Trinità, quell’enorme contenitore anonimo, algido come un’aviorimessa fresca di cemento, e nondimeno realizzato facendo sperpero di denaro, perché fa mostra di sé coi suoi materiali di altissimo pregio, era a quell’epoca ancora in fase di realizzazione, e mi fu risparmiata solo per questo una visita. In compenso, salii alla vecchia basilica del Rosario, dove i corpi dei tre pastorelli hanno trovato la definitiva inumazione, da ultimo anche quello di Lúcia, che concluse la sua missione terrena quasi centenaria, nel febbraio del 2005.
Visita che avrei desiderato prolungare, eppure senza effetto. Ma a lungo ho ricercato e molto ho scritto su Fatima, talvolta ricorrendo a un nom de plume. Ora è invece il caso di continuare ad abbozzare queste sintetiche impressioni a tutta utilità dei miei quattro lettori. M’illumina il ricordo un modesto souvenir dalla precaria vita residuale: un moccolo di candela color avorio antico, che il tempo ha reso intenso come l’ambra. Accosto un accendino allo stoppino e la fiammella rischiara il mio rimembrare, che la visione di alcune foto, scovate dal loro recondito archivio immateriale, ravviva: qui intere famiglie, donne, vecchi, bambini, ecco che allungano altri ceri, modesti come il mio, alcuni di media misura, altri ancora lunghissimi, che alla consumazione del pio rito si piegano come fuscelli vizzi disseccati al sole. Infilati in ogni dove dentro un enorme candeliere votivo dall’aspetto alquanto lugubre, certamente molto più adatto a un camposanto.
Ecco, mi volto, e vedo trascinarsi carponi una donna attempata, alla quale i reumi o l’artrite suggerirebbero di procedere comodamente su due gambe. Eppure a poco a poco incede scivolando sui lastroni di marmo, memore di un’antica consuetudine che rimonta a una pia devozione desiderata dalla giovane Lúcia, per aver visto esaudita una supplica alla Vergine perché la vita di sua madre, molto malata, venisse serbata. Non ha fretta di raggiungere la Capelinha des Aparições che oramai è prossima.
Non oso imitarla, ma deambulo come mio solito fino al primo sedile di marmo che trovo libero. C’è silenzio tutto intorno, infervorato di preghiera. Compreso in questo silenzio che parla all’anima, muovo lo sguardo alla bella statua della Vergine, con in capo la corona in cui è incastonato il proiettile che ferì il Papa polacco nei miei anni verdi. Un anno dopo, venuto in questo Santuario per ringraziare la Madonna per lo scampato pericolo, ebbe a dire tra l’altro: «Il Cuore Immacolato di Maria, aperto dalla parola: “Donna, ecco il tuo figlio”, si incontra spiritualmente col Cuore del Figlio aperto dalla lancia del soldato». Parole destinate a ciascun battezzato, ché sotto la Croce del Signore, nel dolore della Madre, sono state generate alla fede cristiana.
Aljustrel, il paese dei tre piccoli, è ancora oggi uno spoglio mucchio di case, un borgo senza storia e senza gloria come ce ne sono dappertutto. La casa di Lúcia fiancheggia la strada principale, che oggi ha assunto il nome di rua dos Pastorinhos. Vi è stato allestito un museo. Quella degli zii Marto, dove vivevano Francisco e Jacinta, musealizzata anch’essa, la s’incontra un po’ più avanti, sulla medesima via. L’umiltà delle loro condizioni di vita è ancora adesso chiaramente riconoscibile dalla essenzialità del mobilio e delle suppellettili. Eppure quanta dignità e quanto decoro in queste disadorne abitazioni.
Una mattina, come molte altre, i tre piccoli uscirono da queste loro dimore di paese diretti alla Cova da Iria con le loro pecore da pascere. Tra le prime parole che la Madonna pronunciò, ve ne furono di molto impegnative: «Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in atto di riparazione per i peccati con cui Egli è offeso, e di supplica per la conversione dei peccatori?». Risposero tutti acconsentendo.
Piccole, impavide vittime di riparazione: Francisco morì poco meno che undicenne, portato via dall’epidemia di spagnola. Circondato dai familiari, rese l’anima a Dio disteso nel suo letto, rinfrancato dal conforto dei sacramenti, perché il giorno avanti gli fu accordato di ricevere la prima comunione. La sorella minore Jacinta, la prediletta dalla Vergine, se ne andò all’altro mondo lontana da casa, in un letto d’ospedale della capitale. Dopo un doloroso quanto inefficace intervento chirurgico, una suora clarissa e un’infermiera raccolsero le sue ultime parole. Per Lúcia, un diverso destino: una vita lunghissima da religiosa consacrata – doveva far conoscere il “messaggio” al mondo – e tuttavia colmata di afflizione e di amarezze. Vittime di riparazione, perché questo nostro mondo viene salvato dai crocifissi, e non dai crocifissori.
Il “messaggio” che la Madre di Cristo affidò ai tre piccoli veggenti ha un rilevante contenuto escatologico, che è il seguente: la reale esistenza dell’Inferno, come luogo di pena perenne; la devozione al Cuore Immacolato di Maria e la riparazione eucaristica, come via per salvare le anime in pericolo di scontare l’eterno castigo; la tragica realtà dell’apostasia della gerarchia cattolica, che un consacrato rifonde con la sua stessa vita: “vescovo vestito di bianco” che versa il sangue ai piedi della croce, vittima di riparazione eminente che rimedia all’incommensurabile danno del ripudio della vera fede.
A questo nucleo teologico sottende il tema, quanto mai attuale, della Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria. Quel grande Paese che alla fine delle apparizioni del 1917 si sarebbe incamminato sulla tragica via del socialismo reale, che avrebbe contribuito a diffondere in buona parte del globo terraqueo. Ancora sul calare degli anni Cinquanta, suor Lúcia confidava a un religioso messicano che proprio la Russia sarebbe stato lo strumento di cui Dio si sarebbe servito per flagellare questo mondo impenitente e incredulo. Argomento che s’impone nella sua esiziale cogenza in questi ultimi infausti tempi.
Fatima non è evidentemente una storia semplicemente portoghese, ma innanzitutto italiana, perché in questo nostro Paese è la Sede del Vicario di Cristo. E poiché Fatima riguarda l’apostasia di buona parte della gerarchia cattolica, che conflagra nel “mistero dell’iniquità”, e il venir meno del potere che gli si oppone conferito da Cristo a Pietro e ai suoi legittimi successori, ciò che vi avvenne concerne il bene immenso della salvezza dell’anima di ciascuno. A volte capita che le delibere celesti preferiscano individuare località poste sulle prode del grande fiume della storia per avviare una proficua reazione. Chi ha dimestichezza con la parola sacra sa che spesso in posti insignificanti si decidono eventi epocali. Era un piccolo centro abitato Betlemme, luogo natale del giovane pastore fulvo che con un sol colpo di fionda abbatté il bestione filisteo, stabilito da un patto irrevocabile come erede della promessa: il più grande monarca d’Israele. Non a caso, mille anni dopo vi sarebbe venuto alla luce il Salvatore. Anche se da qualche tempo ci vorrebbero convincere del contrario, non ne esistono altri. Fatima, in fondo, di questo ci ammonisce.
Pino Miscione