LARINO. Checché se ne dica, questa creatura progettata dall’uomo col suo sbarramento che raccoglie le acque del Biferno, e il “serpentone di cemento”, da anni ed ancora sottoposto a un radicale risanamento, con tutti i disagi per la viabilità tra il capoluogo regionale e la costa termolese, è diventata, per la sua imponenza e ambientazione naturalistica, uno dei simboli del Molise.
In una serie di articoli del 1941, intitolata, non a caso, “Viaggio nel Molise”, Francesco Jovine percorse e scrisse, mentre divampava la guerra, di questa nostra terra. Il noto scrittore delle “Terre del Sacramento”, riporta la personale e senz’altro storica descrizione del fiume Biferno, passato e presente entrano in netto contrasto e pare che esso permane tuttora, forse ancor di più nel futuro del Molise, e questo, il nostro scrittore conterraneo lo aveva già intuito.
“Nonostante il nome vagamente infernale questo fiume ha una nascita innocente. Le origini di un corso perenne di acqua sono in genere misteriose……L’acqua compare al sole in luogo solitario; si è spogliata lontana segretamente dalle impurità che la velavano, si fa chiara aprendosi il cammino a fatica con una sorta di sofferenza. Dove sgorga trova un letto di ghiaia brillante che ne fa più evidente la chiarezza.
Il Biferno invece compare all’improvviso tra la gente; non fa supporre tutto il segreto lavoro della raccolta delle acque; fin dall’inizio tutto rivelato, ingenuo, rumoroso. Compare come un dono sorprendente della montagna con acque già copiose, veloci, fresche, che scendono agevolmente al piano, s’infiltrano nella terra tenera e alimentando le radici delle piante e delle erbe. Compiuto un ampio, vanitoso giro nella pianura di Boiano dopo aver lambito le case, riceve un primo omaggio dalle acque del Furno……I monti emergono sulle sue sponde e sulle cime dei monti villaggi e casolari, Petrella e Morrone, Casacalenda e Guardialfiera. Il Biferno dilaga rumoroso tra le rocce allargandosi quietamente dove trova agevole farlo, rinchiudendosi virulento nelle strozzature della valle, aprendosi rabbioso la strada per riposarsi poi al piano rapidamente……E’ un fiume che scorre tra le pietre: le pietre gli rendono dura la vita, non gli permettono di ristagnare, di rodere la terra, di lodarsi di limo. E’ costretto a raggiungere il mare presso Termoli con le acque chiare……D’inverno il suo impeto diventa rovinoso, lo scroscio delle acque nella stretta valle tra le pareti montane si fa rumoroso.
Allora il Biferno travolge tutto, si accanisce, elevato il livello, contro le terre prima irraggiungibili e le rode……Il Biferno picchia ostinato contro i pilastri dei ponti; gli alberi divelti fanno da ariete, i sassi da catapulte; nel fondo le falde più presenti delle acque rodono le basi, s’infiltrano negli interstizi e consumano la malta. Le pietre si disgiungono, si levigano e scivolano nella corrente. Il lungo corso del fiume è un cimitero di ponti romani, aragonesi, carolingi. Pilastri isolati, archi spezzati che conservano un frammento del sesto come un rostro.
Per circa quarant’anni dal 1845 al 1881 il Biferno non ebbe più ponte; per quarant’anni d’estate il fiume veniva passato a guado.
D’inverno quando il guado era difficile diveniva un liquido invalicabile ostacolo tra le due parti del Molise. Paesi distanti tra loro pochi chilometri che si rimandavano a mattutino e a vespro il suono delle campane, rimanevano anche sei mesi senza comunicazione o con contatti rarissimi……Per guadare, in alcuni punti dove il fiume si allargava e la corrente era meno pericolosa, c’erano i passatori……si caricavano sulle spalle il viaggiatore raggiungevano non senza rischi, qualche volta mortali, l’altra riva…contadini giganteschi che vivevano sulla sponda del fiume……i paesi della sponda sinistra rimanevano tagliati fuori dal mondo. Notizie di guerre, di cadute di dinastie, di congiunzioni di astri arrivavano dopo sei mesi quando avevano perduto ogni significato, ogni carattere emotivo.
Il Biferno aveva il potere di sconvolgere le leggi del tempo: il lungo inverno che seppelliva le case e i campi diveniva una sola interminabile giornata. Di tanto in tanto qualche corriere più ardito che qui si chiamava “vaticale”, con nome di oscura origine, per aver tentato il guado o di essere passato con un lungo giro sul ponte di Portocannone che dopo il ’45 fu l’unico aperto al traffico, arrivava a Lucito, a Lupara, a Castelmauro portando notizie dell’altro spicchio di mondo: quello dell’altra riva……
Non so se le nostre nonne molisane fossero sognatrici: indubbiamente però i loro sogni non dovevano avere nulla di romantico. La loro vita (spessissimo le ragazze anche se appartenenti a famiglie cospicue erano analfabete) si svolgeva tutta punteggiata da un ritmo alacre di opere domestiche. Sapevano filare e tessere, tingere, cucire, ricamare e mungere, far cacio e salame. Occupazioni di una concretezza così assoluta che escludevano il languido fiorire dei sogni; accettavano il matrimonio come un dovere, erano profondamente madri più che spose. Castissime di pensieri, religiose con la semplicità superstiziosa e pagana dei contadini. Andavano alle nozze con la ferma convinzione che il nuovo stato avrebbe accresciuto i loro doveri e forse le loro pene. Ai figli erano attaccate con amore quasi ferino; tutto il tesoro della tenerezza era riversato sulle loro creature. Sposate, continuavano la loro vita nel chiuso mondo che le aveva viste crescere e di cui il Biferno, capriccioso nume, regolava il corso.
Quando il fiume era guadabile e tornava la buona stagione le acque accoglievano il lino per la macerazione o servivano per l’imbiancatura delle rozze lenzuola fatte con il lino dell’anno precedente filato e tessuto in casa. Allora era possibile mandare qualcuno a gualcare i panni anche a Sepino; gli uomini di casa si preparavano a girare, seguiti dai garzoni da pastori che guidavano armenti, le prime fiere primaverili, dove su consiglio delle donne facevano acquisto dei semplici utensili occorrenti per la cucina o per i lavori dei campi. Allora le rive del Biferno si animavano: il fiume come un puledro divenuto docile si faceva agevolmente cavalcare, il commercio fra i paesi delle opposte sponde riprendeva, si riallacciavano le fila dei proposti parentadi, le spose partivano a cavallo seguite dal corteo dei muli carichi delle casse del corredo. Il Biferno scrosciava quietamente nell’alveo sassoso; i salici delle sponde si riempivano di nidi.
Ma ora il fiume è per sempre domato; contro la sua protervia, mezzo secolo di lavoro ha gettato ponti, viadotti, imbrigliato frane, regolato cascate, scavato canali di irrigazione. La sua ira invernale è regolata sapientemente; il ribelle è rientrato nell’ordine; il mezzo secolo di vita indipendente, socialmente pericolosa, non è che un ricordo. Lungo il suo corso i vecchi mulini vanno in rovina. Le piccole numerose centrali elettriche che le sue acque alimentavano, mettono in moto macine, cilindri, pompe, illuminano tutti i villaggi che la sua furia rendeva solitari.
Le ragazze non attendono più il “vaticale” (era una sorta di manager-ambasciatore-cupido, proponeva e spesso concludeva affari e matrimoni) per trovare marito. Hanno imparato, e da un pezzo, a fare da sé”. (Francesco Jovine)
L’intervento umano e l’apertura dell’enorme cantiere di lavori, per creare l’invaso del Liscione, noto anche come Lago di Guardialfiera, risale agli anni ’60 -’70. Il bacino lacustre si identifica con uno sbarramento di cemento armato alto 60 metri e lungo 500, una strada gli corre sopra dall’inizio alla fine mediante due viadotti di 3,6 e 4,9 chilometri, seguendo in gran parte la linea delle sponde. E’ proprio il tratto sinuoso che lambisce la terraferma quello più affascinante di quest’opera che a quei tempi diede lavoro a tantissime persone, sia uomini che donne, tra cui molti larinesi, come mi raccontano mio padre e mia madre che rifornivano il cantiere di bombole a gas, ed io ero appena nato!
Il lago artificiale è tra i più grandi nel Molise ed è stato progettato con l’obiettivo principale di fornire acqua potabile ma anche irrigua a questa nostra terra che da sempre ha una vocazione agricola.
I lunghi viadotti con gli alti piloni che emergono e si specchiano nelle acque, tutta questa imponente arteria che collega l’Alto Molise al mare, parte dallo sbarramento, all’incirca all’altezza di Larino; proprio qui, secondo un progetto del 1966 dell’ingegner Filippo Arredi, ebbero inizio i lavori per costruire la diga (la seconda per grandezza in Europa), e il vecchio ponte del Liscione venne abbattuto, così quelle Terre del Sacramento furono sconvolte, il corso del fiume Biferno venne domato e deviato per sempre. Il percorso dell’arteria tra Campobasso e Termoli risulta notevolmente accorciato, scorre dapprima dritto, oltrepassando le mura della diga, per poi seguire il profilo di monte Peloso, un intonso rilievo che emerge dalle acque con la sua folta e verde boscaglia di cerri e roverelle, e proseguendo, più avanti, ci conduce al lago di Guardialfiera.
L’incantevole borgo è segnato dal suo alto campanile su una dolce collina che degrada verso le acque del Biferno, ostinato e rabbioso, ma che oggi appare domato, trasformato in un paesaggio lacustre di una bellezza unica nella morfologia collinare che specchiandosi nelle quiete acque lo circonda, la sua vasta biodiversità è favorita da un ambiente umido derivato dalla modificazione di questa parte del Molise con l’intervento dell’uomo. La creazione di questa zona, classificata dalla Protezione Faunistica come “umida” ha favorito anche lo sviluppo di una fauna fluviale (carpe, trote, lucci, anguille, barbi) e di una avifauna acquatica con la presenza tra questi della spatola, l’airone cenerino, la cicogna, il falco pescatore, il nibbio, mentre tra gli animali la volpe, la donnola, il tasso, la faina e la tartaruga d’acqua nei piccoli corsi d’acqua più vicini al lago.
Questa cittadina ha dato i natali a Francesco Jovine e, non a caso, è tra i più noti Borghi della Lettura della regione. L’antico Castrum di Guardia Adalfieri è un gioiello da scoprire non solo per la sua posizione, storicamente lo si ricorda come Diocesi e per l’elargizione del privilegio della Porta Santa (Chiesa di Santa Maria Assunta), per ottenere “indulgenza plenaria, che equivale alla remissione di tutte le pene corporali dinanzi a Dio”, istituita da papa Leone IX nel 1053. Questo periodo storico fu caratterizzato, come è noto e in tutta la regione, dagli invasori Normanni contro cui il papa prese sofferte decisioni preparando, malgrado tutte le difficoltà militari e propriamente numeriche, un’armata che finì massacrata, capeggiata dallo stesso pontefice.
Tuttavia questo bacino lacustre artificiale nella sua nuova veste, senz’altro bella e ricca nella sua biodiversità, ha occultato quel cimitero di ponti romani, aragonesi, carolingi, ma dal lago di Guardialfiera sono riaffiorati i resti di un antico ponte romano e l’antico argine del Biferno; tra storia e leggenda potrebbe essere il ponte di Annibale che in particolari periodi di siccità fa capolino col suo sesto in laterizi e pozzolana antichi.
Si è anche supposto che il toponimo della cittadina di Guardialfiera, potrebbe riscontrare la sua origine nell’essersi saputa ben “guardare”, con i suoi “Alfieri” dal presidio di Annibale.
In una conferenza su “Canne” tenutosi a Barletta nel 1986 lo studioso molisano Ruggiero Laurelli ha identificato la collina di Kalena (Casacalenda) col Monte Cece da cui si può controllare da un lato Gerione e dall’altro, a piombo sul Biferno, si può scorgere l’antico ponte.
Il manufatto è anche conosciuto col nome di Ponte di Sant’Antonio, oltre che con quello più incerto e leggendario di Annibale, il condottiero cartaginese che lo avrebbe attraversato con le sue truppe durante la seconda guerra punica per dirigersi verso la Puglia. La sua armata stanziò nei pressi di Larino, dopo aver assediato e conquistata la città di Gerione, che venne rasa al suolo, ma di cui restano parti delle imponenti mura che furono risparmiate. Il condottiero aveva ben compreso l’importanza di difendere quel luogo così strategico che controllava le vie di comunicazioni, come il ponte sul Biferno.
Il latino Tito Livio, come pure il greco Polibio descrivono la campagna di Annibale e il suo stazionamento di ben nove mesi a Gerione tra il 217-216 d.C., prima di muoversi per la battaglia su Canne, dove trionfò contro i romani nell’agosto del 216.
A conferma del racconto di Tito Livio e Polibio anche il racconto di Appiano d’Alessandria, storico e filosofo che riporta dell’accampamento romano sulla collina di Kalena.
Ne “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” il Masciotta agli inizi del ‘900 scrive in una sua opera in diversi volumi:
La costruzione del Ponte di S. Antonio……risale forse ai primi tempi angioini, se non pure senz’altro all’epoca romana, come il suo magistero murario autorizzerebbe ad opinare. In particolare nel primo volume riporta: nell’agro di Guardialfiera tra i confini di Casacalenda e Larino, campeggia un bel ponte a tre archi: altissimo. Ed a gran corda il medio. Bassi e invece stretti i laterali. Vuolsi costruito da Alfonso I d’Aragona, verso la metà del secolo XV. Manchevole però d’ogni stile aragonese, esso è per noi, dunque, di molto anteriore. Per qualche secolo il ponte rimase fuori dell’alveo fluviale; ora vi è tornato, perché il padre Biferno scherza sovente in queste località.
In un Convegno più recente tenutosi a Larino nel giugno del 1997, voluto dal Centro Studi di Guardialfiera e dal Lions Club di Larino, a cui erano presenti la studiosa di topografia antica Elisa Salvatore Laurelli e Franco Salvatori, presidente della Società Geografica Italiana, prese a sorpresa la parola su questi temi Attilio Stazio, presidente dell’Istituto di Storia Patria esclamando:
nel passato, nell’oggi e per sempre, c’è il bisogno perenne e vivo dell’uomo di appagare e purificare se stesso anche con la valorizzazione creativa del dubbio. E seppur fosse leggenda, l’esistenza a Guardialfiera del Ponte romano è realtà!
La leggenda, d’altra parte –patrimonio culturale di tutti i popoli- è legata sempre a qualche aspetto reale interessante, affascinante. Che è già spiegazione e già risposta meravigliosa, all’interrogativo grandioso e sublime dello spirito. (questo quanto ha riporta Vincenzo Di Sabato)
Anche se dell’antico ponte ci sono pervenute diverse e documentate testimonianze, non vi è alcuna menzione della strada a cui esso doveva appartenere, ma di certo era una strada importante se consideriamo l’arcata che si è conservata che ha una luce notevole di ben diciotto metri. Purtroppo, e cosa ancora più grave, a mio avviso (ma è anche probabile che non sono ben informato) nulla si è saputo, ovvero se le autorità preposte abbiano mai fatto una visita al ponte, o abbiano redatto una scheda tecnica che ne contempli caratteristiche tecniche, una ipotetica epoca e le reali dimensioni.
A chiosa di questo mio modesto articolo, che ho voluto impreziosire con la liricità della biografia sul Biferno scritta dal conterraneo Francesco Jovine, mi permetto di fare alcune riflessioni e domande, riprendendo il titolo di questo articolo, in cui ho riportato temi sempre attuali, prioritari e scottanti per un futuro migliore nel nostro Molise, aggiungendo, certo non come ultimo la pace. Una pace che si è palesata come l’utopia più vera, in queste ultime settimane, mostrando orribilmente la sua ignobile controparte.
L’incantevole e suggestivo bacino lacustre del domato fiume Biferno è finalmente un cantiere, sebbene lento nei suoi lavori, per assicurare una viabilità scorrevole e sicura tra l’Alto e il Basso Molise; però voglio ricordare che è trascorso almeno un decennio da una “abbozzata” legge regionale che prevedeva la valorizzazione ambientale e turistica di quest’oasi naturalistica che è diventata, senza ombra di dubbio, uno dei simboli di questa terra e un raro gioiello nel “povero” Molise.
Mi chiedo: è possibile progredire senza fare? E’ possibile un progresso senza azioni programmate e reali, senza tener conto anche di una corretta giustizia, e che tutto questo vada al di là di interessi privati e politici, a discapito del bene comune?
Vero è che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, certo è che nei non tanto lontani anni ’70 si realizzò un’opera imponente, sfidando l’irruente Biferno domandolo e imbrigliandolo e, quasi non lo si volesse o prevedesse, si creò un’oasi naturalistica speciale, che è un’aggiunta di valore enorme a questo pezzo della nostra Terra.
Per fare, a mio avviso e modesto parere, bisogna smuovere le coscienze, educarle, in maniera più radicale, per fare una “rivoluzione”, e non parlo semplicemente di diplomazia, occorrono due cose:
uno o qualcosa contro cui combattere e qualcuno (meglio se tanti) che si mostri e faccia la “rivoluzione”. Solitamente quel qualcuno, che vuole essere la voce di tanti, è un oppresso tra quei tanti e vive a stento, nel malcontento generale o nella diplomatica indifferenza dell’oppressore “moderno”, che comunque resta tale, un oppressore.
A tal proposito, considerando anche l’assurdo e deprecabile periodo bellico che stiamo vivendo, mi torna in mente una frase letta, e perdonatemi non ricordo in quale libro, che diceva all’incirca:
“La rivoluzione russa covava da anni, ma scoppiò improvvisamente quando la gleba finalmente capì che lo Czar e lo Tzar erano la stessa persona”.
In Italia la democrazia contempla vari tipi di manifestazioni per disapprovare, in maniera civile e non armata, uno o più malcontenti di un popolo, di una società. Una di queste manifestazioni prevede di non nutrirsi fin quando non sono soddisfatte specifiche richieste.
L’oppressore, che può essere chiaramente anche uno dei tanti politici, tenterà le sue più accattivanti e squisite “portate” ma l’imperativo deve essere quello di resistere alle tentazioni, per esistere…e farsi valere!
Nel caso in cui quella persona che ha la sua precisa parte di potere riesce a “far mangiare” il manifestante, riesce, di solito e senza troppi sforzi, a calmare ogni rivolta intrapresa, riuscendo non solo a farlo desistere dal mangiare, ma anche a fargli pagare quello che ha mangiato, il conto!
Cosicché l’oppressore, il potente, non può che avere assicurata la sua più completa vittoria, riaffermando quel potere che gli deriva dalla debolezza di un suo simile, ma ahi noi, molto spesso dall’ignoranza che ancora regna sovrana.
Adolfo Stinziani