TERMOLI-LARINO. Giovedì 30 settembre 2021 il vescovo Gianfranco De Luca ha presieduto il convegno di apertura del nuovo anno pastorale. Si è svolto a Termoli, nell’auditorium “San Giovanni Paolo II” della parrocchia Santa Maria degli Angeli.
L’incontro, alla presenza di sacerdoti, religiosi, rappresentanti delle comunità e del Consiglio pastorale diocesano, ha previsto momenti di preghiera e di riflessione rinnovando l’impegno a vivere con uno stile di comunione e nella collaborazione reciproca i prossimi mesi nelle rispettive comunità.
Un primo tempo è stato dedicato al discorso di Papa Francesco alla diocesi di Roma in vista del cammino sinodale che interesserà tutta la Chiesa; a seguire l’intervento del vescovo Gianfranco con le piste di riflessione per il “Santo Viaggio”. Terza parte, a cura di don Antonio Sabetta, con le indicazioni per il cammino che ci attende con la Chiesa universale e le diocesi italiane. Ora il lavoro passa alle zone pastorali per il confronto sul territorio. Il 15 ottobre ci sarà l’incontro conclusivo a Termoli.
Beato l’uomo che confida nel Signore e decide nel suo cuore il santo viaggio (Sal 83).
Ri-cominciare, ri-nascere: parole che esprimono il desiderio e l’auspicio che ognuno di noi porta nel cuore, dopo e dentro il tempo di pandemia che stiamo vivendo. E nello stesso tempo colgono la pandemia non solo come evento sfortunato e negativo, ma la interpretano come possibilità di nuovo e occasione per rivedere e reinterpretare l’esistenza. Papa Francesco più volte ha sottolineato che male peggiore della pandemia sarebbe tornare a fare le cose di prima e come prima.
Un tempo di prova che ci ha scavato dentro e ha messo a nudo la fragilità-vulnerabilità che ci caratterizza personalmente e la profonda interdipendenza che ci lega reciprocamente, come esseri umani.
La spinta ad uscire, ad incontrare, che in modi vari e variopinti si costata e si grida, anche in maniera scomposta e assoluta, deve essere interpretata e vissuta come una esigenza di un cammino da fare insieme.
Camminare insieme: è questo l’invito che, prepotente, emerge dalla storia. In quella interazione tra l’ambiente naturale, la società e le sue culture, le istituzioni, l’economia che Papa Francesco chiama “ecologia integrale”. All’interno della quale un’attenzione particolare deve essere dedicata a restituire dignità agli esclusi e a prendersi cura della natura.
Come comunità di cristiani, ci sentiamo particolarmente interpellati e desideriamo essere un’avanguardia aperta che vuole abitare e vivere nel proprio territorio in questa prospettiva. Decidiamo – confidando nel Signore che, Risorto, vive tra noi e nello stesso tempo ci precede – di intraprendere questo viaggio che, proprio perché c’è Lui, è santo.
Cammino insieme, nel segno della cultura della cura, ispirata all’icona del Samaritano così come la presenta Papa Francesco nella Fratelli tutti.
Tre parole – cammino, insieme, cura – definiscono un modo di essere Chiesa. Ad esse fanno da corrispettivo altre tre – umiltà, disinteresse, beatitudine – che ne caratterizzano lo stile.
Il camminare insieme è possibile solo se la sua forza è l’umiltà e il disinteresse e solo se, camminando insieme, ci si prende cura gli uni degli altri. Il camminare insieme nella cura reciproca è fonte di gioia e presupposto di compimento del nostro essere persone e popolo. Camminare insieme vuole dire uniformare il proprio passo a quello del fratello che forse è claudicante, più lento, più incerto; camminare insieme richiede un supplemento di sguardo e di attenzione verso gli altri che fanno con me la stessa strada; si cammina insieme solo se si abbandonano le proprie certezze, se si è capaci di condividere fatiche, obiettivi, se si spezza lo stesso pane (il viatico, il pane del cammino), solo se si vince l’arroganza, l’individualismo, la presunzione, l’abbandono del passo solitario e orgoglioso. Si entra dunque in cordata con l’umiltà di chi si assume il compito di sostenere l’altro e di essere da lui sostenuto e incoraggiato, rinunciare al proprio interesse di raggiungere una meta a prescindere o a scapito dell’altro. L’insieme richiama la fraternità, e quindi l’attenzione all’altro, la cura perché l’altro venga aiutato nella sua fatica e si senta così custodito. Qui, possiamo dire, è il segreto e il senso della beatitudine: non essere abbandonato, non soffrire la solitudine, e nello stesso tempo offrire all’altro il mio sostegno, l’altro senza il quale non ci può essere cammino, non ci può essere condivisione, non ci può essere speranza nel raggiungimento della meta.
Proprio questo è quanto Papa Francesco ha espresso e proposto alle comunità ecclesiali delle diocesi italiane. Ci ha invitati con decisione e determinazione ad attivare un percorso-processo sinodale a partire dalla base. Percorso-processo che coinvolga ogni piccola comunità o articolazione ecclesiale, ogni comunità diocesana e ogni regione ecclesiastica.
Mi sembra utile fermarci per qualche riga sulla parola sinodo.
Innanzitutto l’etimo greco è una parola composta: syn + ódos. Ódos significa “cammino”, syn è un prefisso che vuol dire “con”, “insieme”.
Il primo termine, “cammino”, teologicamente indica un itinerario che si sviluppa nel tempo e procede verso un compimento. Nella esortazione Evangelii Gaudium, riferendosi al principio secondo il quale il tempo è superiore allo spazio, Papa Francesco scrive: «Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone» (EG 223). In questa ottica la sinodalità non può essere descritta in modo definito e preciso; si tratta, come spiega Papa Francesco, di «sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite (…). Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci».
Se si vuol camminare insieme bisogna da una parte essere profondamente convinti che Dio agisce nella nostra storia, e avere, contemporaneamente, quella docibilitas che porta ad adattarsi alle tracce che lo Spirito lascia sul cammino, che non risulta sempre lineare, ma presenta svolte e tunnel da attraversare. In questo senso è importante non partire da nostre pianificazioni, ma raccogliere, attraverso il discernimento, il filo che lo Spirito tende lungo il cammino.
Il secondo termine syn, è un prefisso (potremmo dire una pre-condizione) fondamentale dal punto di vista biblico e teologico. Nella interpretazione di questa particella non possiamo limitarci alla dimensione spaziale dell’essere accanto, nemmeno alla sua valenza psicologica di sintonia affettiva e relazionale, come neppure alla sua dimensione sociologica che può produrre buone prassi di cooperazione e ad azioni frutto di una concreta interazione. Qui si tratta di un “insieme” che nasce dalla relazione personale con Cristo e porta ad uscire dall’io, verso il “noi” e ad approcciare e leggere la realtà partendo dal “noi”.
Si tratta di un evento pasquale e conseguentemente dello Spirito Santo.
Beato l’uomo che teme il Signore, e decide nel suo cuore il santo viaggio (Sal 83).
Queste brevi riflessioni aiutano a cogliere il profondo significato di chi è “l’uomo che confida nel Signore”. Solo quest’uomo, veniamo avvertiti, può decidere di iniziare il santo viaggio.
Il passaggio dall’io al noi, senza confusione, uniformazione e separazione-opposizione, è opera dello Spirito Santo, e trova la sua fonte e la sua forma nella Celebrazione Eucaristica (sinassi) che oltre ad esserne la fonte, è anche sosta che rinfranca e ri-forma e, finalmente, meta che ci sta davanti.
Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo la sapienza del cuore (Sal 89).
Il passaggio da fare per arrivare alla sapienza del cuore viene espresso poeticamente in questo versetto del salmo 90: apprendere ed esercitare l’arte di contare i nostri giorni.
Quest’arte, svelandoci il limite che segna la nostra esistenza e la transitorietà del tempo che appare come il divoratore di tutto, ci apre a quel desiderio di eternità e di pienezza che vive in ciascuno e dischiude il cuore alla presenza di Dio che lo abita.
Per noi cristiani questo processo accade se viviamo dentro la memoria del nostro Battesimo: immersi nella morte di Gesù, consepolti con Lui, con Lui siamo risorti e in Lui siamo figli del Padre.
La sapienza del cuore, che noi cristiani dobbiamo coltivare e far crescere, è proprio la consapevolezza di essere figli nel Figlio, e la possibilità che abbiamo in Cristo, nostro fratello, di vivere da figli del Padre, da fratelli di ogni persona umana, dentro (con rispetto e apertura) il tempo e lo spazio che abitiamo.
In questa prospettiva dovremmo iniziare la nostra giornata rileggendo ad alta voce il discorso della montagna (Matteo 5-7), che viene sintetizzato e espresso in quel testo che ne è il cuore e il centro, anche nella struttura redazionale: il Padre nostro.
Anche nella Celebrazione Eucaristica, centro e cuore della vita della comunità cristiana, tutto tende ad introdurci nella rinnovata e sempre più consapevole coscienza dell’essere figli che grazie a Gesù e in Gesù vivono per mezzo dello Spirito Santo, in comunione col Padre e tra loro.
Questo dono nel quale siamo collocati, immersi, va aperto e vissuto nella quotidianità e si traduce in uno stile di vita pasquale, che porta ad una uscita continua da se stessi, attraverso un atteggiamento di servizio e di dono che, se vero, è allo stesso tempo in relazione al Padre e con gli uomini e le donne che incontriamo.
Stile di vita che si può connotare con due sostantivi che ne specificano l’inveramento: ospitalità e prossimità.
Ospitalità: essa innanzitutto va offerta nel pieno disinteresse. Proprio questo dona all’altro la possibilità di esprimersi e di condividere e crea la condizione che anch’io possa essere accolto come suo ospite. È lo stile di stare al mondo del cristiano perché, innanzitutto, è lo stile di Gesù.
Egli come possiamo vedere nei Vangeli: si lascia interrogare (potremmo dire che è sensibile al “forte grido” della povertà, materiale e spirituale, dell’ingiustizia…) e stupire (come nell’episodio del centurione di Cafarnao, che gli strappa un’esclamazione di ammirazione e anche di gioia nel trovare la fede dove non ce la si sarebbe aspettata. È disponibile a farsi da parte, a lasciare parola, come nell’incontro con l’emorroissa. Dà fiducia al suo interlocutore, in maniera del tutto gratuita: accetta di essere vulnerabile davanti a lui, di subire il suo eventuale rifiuto (o peggio).
Prossimità: anche questa nasce dalla gratuità e dal disinteresse e affonda le sue radici nella consapevolezza che l’altro mi appartiene e che senza l’altro risulto mancante. Richiede sicuramente coraggio, perché uscire da sé è sempre un rischio mortale, nel senso del consegnare se stesso secondo la misura di Gesù. Nello stesso tempo richiede tenerezza, delicatezza perché decentra da sé e pone in ascolto dell’altro della sua situazione e della sua condizione; cosicché l’agire non si esaurisca in un “fare”, ma è risposta concreta al bisogno reale dell’altro. La parabola del buon samaritano, da questo punto di vista, è la parola evangelica che illumina il senso della prossimità: brevemente, farsi prossimi dell’uomo del nostro tempo abbandonato ai drammi dell’esistenza, che incontriamo sul nostro cammino, senza evitarlo rifugiandoci in false ed egoistiche giustificazioni. Come il samaritano, ci si prende cura, ci si fa carico dell’altro incontrato, anche se pregiudizialmente diverso, forse nemico, si spende del proprio, si coinvolge l’albergatore che, ammirato, dà fiducia al samaritano e provvede a sostituirlo nella cura del malcapitato; è il contagio della prossimità e della solidarietà.
A questo punto urge una precisazione: è vero che l’ospitalità e la prossimità vanno coltivate e esercitate, ma esse sono posture connaturali della persona umana e soprattutto della persona redenta. Si tratta semplicemente di non consegnare all’atrofizzazione queste posture che, se esercitate, ci fanno persone veramente libere e realizzate. Non siamo nella logica del fare per essere, ma nella dinamica del dono ricevuto da realizzare con umiltà e perseveranza.
- Ecco com’è bello e gioioso che i fratelli stiano insieme (Sal 132).
Gesù Risorto, apparendo a Maria le dice: “…va’ dai miei fratelli è dì loro, salgo dal Padre mio, Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Così Luca negli Atti, dopo l’Ascensione di Gesù, racconta: “In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunata era di circa centoventi – e disse: “Fratelli…” (At 1,15). Una comunità di fratelli: così si presenta la Chiesa nel suo sbocciare e tale rimane nel corso della storia. La fraternità è fonte di santità e di vita in un mondo desolato; la fraternità ricercata e vissuta che fa vedere il Padre.
Scrive Papa Francesco: “…il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in quest’epoca, e anche là dove sono un ‘piccolo gregge’ (Lc 12, 32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr. Mt 5, 13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!” (EG 92).
L’epistolario paolino è un continuo richiamo alla vita fraterna attraverso indicazioni puntuali e concrete. Ai filippesi Paolo scrive: “Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,1-8).
“L’anima – scrive Chiara Lubich – deve, sopra ogni cosa, puntare lo sguardo sull’unico padre di tanti figli. Puoi guardare le creature come figlie dell’unico padre. Oltrepassare sempre col pensiero con l’affetto del cuore ogni limite posto dalla vita umana e tendere, costantemente, per abitudine presa, alla fratellanza universale e a un solo padre: Dio. Gesù modello nostro, ci insegnò due sole cose che sono una: ad essere figli di un solo padre ed essere fratelli gli uni gli altri. Virtù che unisce l’anima Dio è l’umiltà, l’annientamento. Il più piccolo neo d’umano che non si lasci assumere dal divino, rompe l’unità con gravi conseguenze. (…) L’unità con le altre anime si raggiunge ancora per mezzo dell’umiltà: aspirare costantemente al primato col metterci più possibile a servizio del prossimo. Ogni anima che vuole realizzare l’unità deve avere un solo diritto: servire tutti perché in tutti serve Dio”.
In questo breve appunto troviamo sintetizzato tutto il cammino che ognuno di noi ha la possibilità di fare grazie al lievito nuovo della Pasqua che fermenta la nostra vita dal giorno del Battesimo. Vivere da redenti è vivere così: figli del Padre, fratelli di tutti. I criteri del mondo che prevedono leadership, ruoli da far valere, vanno integrati e vissuti in questo contesto vitale e solo in esso hanno senso.
Una comunità cristiana cerca di camminare insieme, avendo cura di tutti, approfittato di tutti gli strumenti e le possibilità di cui dispone, come gli organismi di partecipazione, che sono i luoghi concreti dove si vive, si realizza, si costruisce e si misura la realtà della comunione, nell’ascolto e nel dialogo continuo, nella condivisione e nella corresponsabilità. Questi consigli collegiali sono per questo vivamente raccomandati perché sono lo specchio della realtà della comunità cristiana. Nel rispetto della diversità dei ministeri e dei carismi, gli organismi collegiali diventano i polmoni della comunità; in essi si incontrano e si arricchiscono le molte vocazioni suscitate dallo Spirito, quelle ordinate all’esercizio del ministero presbiterale, quelle della vita consacrata, quella della vita coniugale, e le altre suscitate dallo Spirito che guida la Chiesa e non cessa di stupire per le novità di cui la ricolma.
- Questo povero grida e il Signore lo ascolta (Sal 34).
“Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto (…) il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» (Es 3,7-10).
Occorre che, come cristiani e come comunità ecclesiali, ci sintonizziamo con lo sguardo e l’udito di Dio. È da Lui e in Lui che siamo chiamati a guardare la miseria del popolo e ad ascoltarne il grido.
Lo sguardo e l’udito del Padre li incontriamo nel Crocifisso che si è caricato delle nostre infermità e ha, nel grido del suo abbandono, raccolto ed espresso tutte le grida dell’umanità sofferente. Lui ci manifesta che le miserie e le grida di tutti i poveri sono suoi volti e rendono presente nella storia di ogni tempo quel “Ho sete” (Gv 19,28) detto sulla croce, e offrono di la possibilità entrare in comunione con Lui che ritiene fatto a sé quanto facciamo per il prossimo nel bisogno.
Nelle nostre comunità, come singoli e tutti insieme, siamo invitati a entrare nello sguardo e nell’ascolto che il Padre ha della realtà del nostro popolo e del nostro territorio. Questo lo possiamo fare, comunità per comunità, attraverso tre momenti che sono tra loro circolari: “ascoltare” la situazione attraverso un’attenta verifica del presente, “cercare” quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili, “proporre” scelte concrete che come Chiesa locale può recepire e mettere in atto nelle singole situazioni e nel suo insieme.
Ascolto, ricerca e proposta vanno declinati insieme: l’ascolto richiama l’attenzione all’altro, alla sua vocazione, allo Spirito che in lui geme, soffre, grida, propone, richiama il fondo il dovere di ricercare innanzitutto la voce dello Spirito e, insieme, le risposte alle interpellanze di tutti. Da qui il compito di avanzare proposte che siano indicazioni per il cammino della comunità, proposte in sintonia con quanto la comunità vive e secondo le sue possibilità concrete; proposte condivise, non imposte, proposte che emergono dunque dal confronto, dal dialogo e dallo sguardo attento sulla realtà. Proposte che non cadono dall’alto, ma sono frutto di elaborazioni proficue, esiti di quel “lavoro dal basso” suggerito dal papa.
Proprio questo processo e i frutti che ne derivano aprono a quel prendersi cura che è la modalità di assumere le singole situazioni con uno spirito di condivisione e di partecipazione piena, e avvia un ulteriore processo di trasformazione e di cambiamento. Come ha fatto Dio con il popolo d’Israele e Gesù Cristo con l’intera umanità.
- Manifesta al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera (Sal 37).
Leggendo la nostra realtà ecclesiale e il contesto sociale nel quale viviamo, risulta necessario e urgente evidenziare due attenzioni che si impongono alla nostra riflessione e alla nostra azione pastorale: le famiglie e i giovani adolescenti. Dal punto di vista sociale altrettanto urgenti emergono due tematiche: lo spopolamento e il problema del lavoro.
Su queste attenzioni e tematiche è bene che ci fermiamo per ascoltare, cercare e proporre, insieme, nelle nostre comunità ecclesiali. Impegno che va svolto anche in sinergia con il ricco e articolato mondo delle associazioni presenti nel territorio e con gli amministratori locali. Con la convinzione che lo Spirito Santo soffia dove e come vuole, e che ogni persona, in quanto tale, è portatrice di una scintilla della Sua luce. Dobbiamo evitare di pensare che si tratta di un’azione per addetti ai lavori e anche limitarla a quanti risultano “vicini”.
Le famiglie sono ancora legate a valori sociali tradizionali: il ripetuto crollo demografico, lo spopolamento di tante piccole comunità, il rapido invecchiamento, danno il senso dello scoraggiamento, del pessimismo fatalistico. L’accentuata e prolungata crisi economica mette in difficoltà le poche famiglie giovani, deprime la speranza nel futuro, genera ansia per i figli. La dispersione conseguente alla costante emigrazione crea frammentazioni, rapporti che si vanno lacerando e lontananze che procurano rabbia e dolore.
Gli adolescenti guardano con ansia e incertezza al loro futuro; gli sbocchi dopo gli anni passati nelle aule scolastiche sono sempre più vaghi. E intanto vivono come in una terra di mezzo, sfiduciati e senza speranza in quello che sarà il domani.
Il massiccio, massificante e alienante uso dei social è purtroppo il rifugio nella loro quotidianità, fuga dalla realtà, evasione, nella remota illusione di ‘un’altra realtà’. E impedire agli adolescenti di sperare, di sognare, di proiettarsi in un futuro promettente è una disgrazia.
Dal punto di vista occupazionale, è sotto gli occhi di tutti la pluridecennale crisi di cui soffre il nostro territorio. Causa principale dello spopolamento è proprio l’impossibilità di trovare un’occupazione stabile, che dia sicurezza al sostentamento delle nostre famiglie. Dare prospettive concrete per riabitare le nostre aree, promuovere politiche attive, creare opportunità di lavoro, specie per le nuove generazioni, superare campanilismi che causano lotte tra poveri: tutto questo va detto, ripetuto, ma occorre una inversione di tendenza, uno scatto di solidarietà, una nuova passione per l’uomo e per la dignità di ciascuno stanno attraversando tempi di grandi trasformazioni sociali, anche nei nostri contesti
Sicuramente questo richiede creatività e nuovo slancio nel ricercare con umiltà e perseveranza nuove modalità di essere tra la gente e con la gente. Modi e gesti che aiutino a connettere sempre meglio la pratica religiosa e le forme attraverso le quali essa si esprime, con la quotidianità.
Questo attraverso un protagonismo sobrio, ma concreto, delle famiglie e una capacità di abitare gli ambienti della vita e dell’attività umana da parte di cristiani che vivono la propria esistenza concreta illuminata da Cristo.
Tutto va affrontato e messo insieme da noi cristiani con quella consapevolezza di cui scrive sant’Ignazio di Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».
Perché questa consapevolezza possa diventare sapienza del vivere e chiave di lettura dell’operare e dell’agire di ognuno di noi e di tutti noi come cristiani, occorre vivere in profondità la liturgia.
La Celebrazione Eucaristica non è solo il nostro andare a Dio, ma il venire di Dio nella nostra vita che, assunta e trasformata dalla sua azione, ci viene restituita nella forma della figliolanza che si concretizza nella fraternità ricercata e vissuta nel quotidiano. Questo ci fa Chiesa e perciò capaci di leggere le cose insieme, come Corpo. Il compito di fare sintesi tipico del Vescovo e del presbitero unito al Vescovo, deriva solo da questa condivisione del servizio ed è frutto della comunione la quale è la sola a garantire che stiamo leggendo e vivendo le cose nello Spirito.
Papa Francesco nel messaggio inviato ai partecipanti della Settimana Liturgica che si è svolta a Cremona, per mano del Segretario di Stato scrive: “La domenica, l’assemblea eucaristica, i ministeri, il rito emergano da quella marginalità verso la quale sembrano inesorabilmente precipitare e recuperino centralità nella fede e nella spiritualità dei credenti”.
È importante che, come comunità eucaristiche, dedichiamo tempo e riflessione, facendo seguito a quanto scrivevo nella lettera pastorale dell’anno scorso.
- Con cuore di Padre: nel segno di San Giuseppe custode di Maria, sua sposa, e di Gesù, il Verbo incarnato.
Nella nostra vita ecclesiale e sociale occorre attivare una cura ricostituente dell’arte di generare, vissuta nella tonalità della paternità, che è sicuramente altra da quella vissuta nella tonalità della maternità. Essa dovrebbe irrorare in modo speciale l’esercizio del servizio dell’autorità, in tutte le sue coniugazioni.
È la grazia che ci arriva dall’anno dedicato a San Giuseppe, indetto da Francesco che ci ha donato la ricca e preziosa lettera apostolica Patris Corde.
Non si tratta di ruoli o di faccende da sbrigare, di parità da discutere, di diritti da equiparare, ma di posture che tipizzano la figura paterna nell’atto di generare e accompagnare vita, in tutte le forme che essa assume. Esse, se ben vissute, costituiscono anche un vero anticorpo alle possibili derive paternalistiche e clericali, così presenti nella nostra vita ecclesiale e sociale.
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- Riconoscere: La prima azione che il padre compie in quanto padre è quella di riconoscere e di dare il nome al figlio, atto fondamentale e fondante dell’identità personale di ciascuno di noi. Quante storie di uomini e donne alla disperata ricerca del padre che si è dileguato nel nulla o si è vestito di mentite spoglie di amico e di consigliere! Anche nella comunità ecclesiale il primo compito di chi esercita il servizio dell’autorità è quello di riconoscere ognuno nei carismi e nei doni che ha ricevuto, nelle qualità e nelle capacità che ha e di dargli il nome attraverso l’affidamento di un ministero e nel fargli spazio perché esprima pienamente se stesso. Questo vale anche per le realtà associate e carismatiche che sorgono nella Chiesa. Il riconoscere l’altro diverso da sé e il chiamarlo per nome, che è altro dal proprio, risulta fondamentale per vivere la fraternità: senza questo primo passo, l’altro diventa concorrente e non può che essere eliminato.
- Accogliere: è il secondo passo. Non basta riconosce e dare il nome, occorre accogliere il figlio come parte di sé – mi appartieni, me ne prendo cura – e decidere di compromettersi con lui e per lui attraverso una dedizione di sé e un impegno totale della propria persona. Anche nella comunità cristiana al riconoscimento dell’altro fa seguito la presa in carico dell’altro come parte di sé e riconoscere quel legame che nasce dall’essere membra del Corpo di Cristo che è la Chiesa ed essere membra gli uni degli altri.
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- Custodire: l’accoglienza si concretizza nella custodia dell’altro. In opposizione alla risposta di Caino, che a Dio che gli chiedeva dove fosse suo fratello Abele ha risposto: “Sono forse io custode di mio fratello?” (Gen 4,9), è proprio il farsi carico dell’altro e il custodirlo nel corso della sua crescita che permette ad ognuno di vivere da vero figlio dell’unico Padre. Tutto mi riguarda, perciò me ne interesso; ognuno mi appartiene perciò me ne prendo cura.
- Nutrire: prendersi cura dell’altro nel rispetto del Disegno di Dio su di lui. Si tratta di entrare in quella dimensione dell’amministratore fidato e prudente di cui parla Gesù nel Vangelo. L’essere fidato fa sì che l’altro possa contare sempre su di te e che abbia la certezza che non ti aspetti niente da lui, ma che ci sei per lui, così, semplicemente, senza condizioni. L’essere prudente non consiste nell’andare piano per timore di sbattere, ma nell’essere previdente, nell’avere uno sguardo che sa vedere oltre e sa mirare allo scopo e sa intervenire a tempo opportuno e in modo mirato secondo i bisogni reali di ciascuno.
- Sparire: è l’ultimo passaggio. Saper restare nell’ombra e defilarsi al momento opportuno perché l’altro possa esprimere tutta la sua realtà in modo libero e senza condizionamenti.
Conclusione
In questo procedere insieme resta fondamentale la sintonizzazione di ciascuno con lo Spirito Santo che vive dentro di noi e agisce nella storia nella quale siamo inseriti. Non si tratta infatti di trovare sintonie e sinergie tra noi, frutto di accordi o di ricerca di obiettivi comuni: resteremmo sempre e comunque esposti alle interferenze che disturbano e confondono e impantanati nella diversità degli approcci e delle visioni.
Occorre fare silenzio, fare spazio, creare quel vuoto nel quale lo Spirito possa agire in noi e attraverso noi per il bene dell’umanità.
Perché questo accada, occorre irrorare la nostra vita personale con un’abbondante pioggia della Parola di Dio, lasciarci abitare dalla Parola, lasciarla vivere in noi.
Come San Giuseppe che, proprio perché si è lasciato abitare dalla parola consegnatagli dall’angelo nel sogno, si è ritrovato protagonista di una storia impensabile e straordinaria, compiuta nella normalità e nella fatica della quotidianità.
Come la Vergine Maria che conservando e meditando la Parola ha compiuto quel cammino della fede che l’ha portata alla piena immedesimazione con il Figlio Suo.
Più che mai dobbiamo sentire consegnate a ciascuno di noi personalmente e a noi come Chiesa di Termoli-Larino quanto leggiamo nella Seconda lettera a Timoteo: “Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere e a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16-17).
È il presupposto per attivare il processo di discernimento comunitario che ci porterà a fare il Bene che Dio vuole adesso per noi, per la Chiesa e come Chiesa per l’umanità.
Eterno Padre, avvolti dal tuo sguardo d’amore e sostenuti dalla tua paterna premura, vogliamo, insieme, come Chiesa diocesana, intraprendere il santo viaggio. In Gesù tu ci doni un compagno e nello stesso tempo la via per camminare nella storia verso il compimento del tuo Regno.
Ti ringraziamo e ti lodiamo perché ci vieni incontro e ci raccogli, ogni domenica, attorno alla mensa della Parola e del Pane Eucaristico, e ci rendi partecipi della tua stessa vita e ci rinnovi e corrobori nel nostro essere figli e membra dell’unico Corpo di Gesù Cristo, la Chiesa.
Insegnaci la sapienza del cuore donandoci il tuo Santo Spirito.
Grazie a Lui la nostra mente e il nostro cuore restino sempre in quella relazione filiale che ci apre alla confidenza e alla fiducia nel tuo amore che è più forte delle nostre fragilità e delle nostre paure e ci permette di ricominciare dopo ogni caduta.
Dacci la gioia e il gusto della vita fraterna. Fa che non ci fermiamo dinanzi alle diversità e alle differenze, rendici capaci di accogliere e ospitare ognuno e tutti. Rendi il nostro cuore simile al Tuo che tutti accoglie e tutti abbraccia.
Rendici partecipi del tuo sguardo sulle vicende umane e del tuo ascolto delle grida che l’umanità e l’intero creato elevano. Dacci la tua passione per l’uomo, per ogni uomo, per il creato.
Fa che sia sempre viva in ciascuno di noi, e in tutti noi insieme, la consapevolezza di essere da te chiamati e inviati per testimoniare attraverso l’amore che si fa tutto a tutti, che Tu sei l’Amore e che ognuno è il tuo figlio prediletto per il quale doni te stesso.
Fa che non perdiamo mai la consapevolezza dei nostri limiti. Di quelli ti servi per manifestare la potenza del tuo amore che tutto assume e trasforma. In questo modo resteremo sempre in cammino con e tra la gente, sapendo che Tu sei con noi e nulla ci separa dal tuo amore.
Aiutaci ad accogliere, nella nostra esistenza personale e di Chiesa, la testimonianza di San Giuseppe, che in modo unico e concreto ha saputo vivere e raccontare la Tua paternità. Nella contemplazione della sua vita accanto a Maria e a Gesù, fa che impariamo a coniugare nella quotidianità i verbi che la esprimono.
Infatti altro non desideriamo e vogliamo se non che le nostre opere glorifichino te e il Figlio tuo Gesù. Amen.
+ Gianfranco, vescovo
Termoli 30 settembre 2021, memoria di San Girolamo.