LARINO. Riceviamo e pubblichiamo l’interessante racconto autobiografico dell’artista Adolfo Stinziani che questa volta ci porta a conoscere uno dei palazzi storici di Larino e la famiglia proprietaria, quella dei de Gennaro.
Il Palazzo sorge nella Piazzetta di Santa Maria della Pietà, che prende il nome con la sua via principale dalla omonima Chiesa, sullo stesso sito anticamente sorgeva un monastero dedicato a San Basilio e, forse, come ipotizzano taluni storici esisteva già nell’842 una chiesa intitolata alla B.V. Maria Madre di Dio, che accolse le reliquie di San Pardo quando, in quello stesso anno, arrivarono grazie ai larinesi “predatori cortesi” nella Città Frentana.
Io sono nato nella casa dei miei avi larinesi che fa da pietra d’angolo tra via Santa Maria e via Castagna o Castagno, di fronte l’incombente, maestoso e rosso Palazzo de Gennaro.
Proprio dirimpetto l’entrata secondaria della mia casa natale, su via Castagno, si apre una delle porte delle scuderie del Palazzo dismesse, l’altra ex scuderia fu invece un frequentatissimo cantinone, come mi raccontava mio nonno, attualmente accoglie, da tanti anni, alcuni carri che sfileranno nella processione del Santo Patrono.
Sul nobile edificio una lastra reca la scritta via Castagno, mentre sulla mia casa la stessa è al femminile, forse un errore maldestro dello scalpellino?
Mi piace ricordare un aneddoto di Giuseppe Orazio de Gennaro, più noto come don Peppe, che proponeva a mio padre di scambiare le lastre, volentieri avrebbe preferito quella al femminile per il suo apprezzamento palesemente dichiarato per il gentil sesso. In realtà vi era un altro motivo: le due lastre contraddittorie che mi sono state chiarite da uno scritto del Magliano (anche i Magliano, nobili e illustri larinesi, hanno il loro Palazzo nella Piazzetta, proprio di fronte quello dei de Gennaro) che scrive della via, intitolata a una delle famiglie notabili larinese non più esistente, ovvero i Castagna.
Per cui il caro don Peppe, noto per le sue argute battute, la sua cordialità e nondimeno la sua immensa cultura, sapeva che la nostra lastra era più antica e che a lui premeva scambiarla soprattutto in qualità di estimatore d’arte.
D’altronde l’epigrafe posta sul portone principale del suo Palazzo recita in alcune righe quello che un suo avo, oltre il nome, gli ha trasmesso.
D. O. M.
JOSEPHUS QVAS DE JANUARIO A CASACALENDA
VESTRORVM LARINVM AMATOR
FVNDAMENTIS EXCITAVIT CONSTRVXIT ORNAVIT
A.D. MDCCXXI
La famiglia de Gennaro diede al Regno di Napoli valenti soldati, letterati, poeti, politici e soprattutto noti giureconsulti.
Il ramo molisano era ben presente tra Casacalenda, Cantalupo, San Massimo e Larino. A Larino la figura di spicco fu Domenico de Gennaro di cui scrisse Benedetto Croce :
A Casacalenda il protettore di quel popolo era un dottore in Legge, nobile giovane colto e di liberi spiriti che sostenne e vinse dal 1780 in poi una serie di liti contro i feudatari de Sangro, che invano tentarono di ridurlo al silenzio ma alla fine riuscirono a farlo ammazzare nella reazione sanfedistica del 1799. Amico del giovane de Gennaro il duca Francesco Cardone di Castelbottaccio che frequentò dal 1785. Il duca era già in età avanzata e aveva sposato la giovanissima donna Olimpia Frangipane che apparteneva al ramo napoletano del casato romano che in epoca aragonese fu insignito del ducato di Mirabello del Molise. La duchessa dotata di cultura e molto brillante aveva creato un cenacolo di intellettuali in quello che si ricorda come il “casino della baronessa di Castelbottaccio”. In questi incontri partecipavano: don Domenico, V. Cuoco, G. Zurlo, G. Pepe e il marchese Le Maitre. In quel periodo la sorella del de Gennaro, donna Maria, sposava un Pepe, cugino di Gabriele Pepe.
Gli spiriti liberti del giovane don Domenico trovano un riscontro in alcune lettere con espressioni di indubbio affetto tra il colto giureconsulto e donna Olimpia (l’epistolario è conservato nell’archivio della famiglia de Gennaro a Casacalenda).
Nel 1795 il cenacolo fu chiuso dopo l’arresto dei suoi frequentatori abituali, poiché inneggiavano alle idee rivoluzionarie francesi. Don Domenico fu arrestato due volte, dopo la proclamazione della Repubblica partenopea, e quando venne liberato rifiutò delle importante cariche a Napoli per rimanere a Casacalenda.
Non aveva compiuto quarant’anni quando fu ammazzato, fucilato sulla spiaggia di Campomarino, nel 1799, dietro l’omicidio, con a capo il cardinale Ruffo, la famiglia dei de Sangro da sempre nemica dei de Gennaro.
Il ramo della famiglia de Gennaro si sviluppa a Larino dopo quel triste episodio, il barone Giuseppe ha già edificato nella piazzetta di Santa Maria il Palazzo, come riporta la lastra sul portone d’ingresso.
Nel rispetto della privacy pubblicherò solo alcune foto del Palazzo dal mio archivio personale. La pubblicazione della foto della cara baronessa mi è stata invece concessa dall’amato figlio Giannantonio de Gennaro, ed è stata scattata da lui stesso.
L’intero Palazzo è caldamente addolcito da tappeti antichi usurati dal calpestio che ha offuscato tinte e decori, ma predomina il rosso in un’aura ottocentesca. Uno dei miei tanti ricordi è legato alla biblioteca e alla figura della baronessa Anna Maria che mi chiamava perché voleva un mio parere professionale sull’antica savonarola che serviva da lettura nella ben fornita biblioteca. Spesso mi faceva chiamare dalla sua cameriera per consigli, piccoli restauri (quei pregiati mobili antichi richiedevano una manutenzione continua), a cui si univano anche gradevoli chiacchierate, per la famiglia sono stato da sempre “semplicemente” il piccolo dirimpettaio figlio di Francesco.
Ebbi anche modo di visitare le secrete del Palazzo, dove erano conservati un cospicuo numero di mobili di pregio settecenteschi, come trumeaux e una scrivania con tanti cassetti di cui la baronessa aveva perso le chiavi. Ebbene io col mio passepartout e un’infinità di chiavi non riuscii ad aprire quel cassetto chiuso, tanto era complicato l’antico meccanismo della serratura, e ancora ancora oggi penso a quella “sconfitta” e a cosa potesse contenere quel cassetto: forse solo un caro ricordo!?
In ogni stanza del Palazzo si respira la storia della famiglia de Gennaro che ha anche rappresentato una buona parte della storia di Larino. Nella “Sala delle lance”, così denominata per la presenza delle panoplie delle lance lì esposte, le pareti mostrano, di rimando, una serie di quadri con scene di battaglie , le pistole da duello con lo stemma del leone rampante della famiglia e un pianoforte.
Una delle stanze da letto, replica nel centro del settecentesco capoletto ligneo il leone rampante, troncato di rosso su un campo d’oro. Nella nobile famiglia non mancò di certo un ecclesiastico che onorò la nostra antica Diocesi, la sua presenza si materializza nella sedia vescovile dorata e con gli emblemi di don Alessandro de Gennaro, accompagnata da due sgabelli intatti anch’essi della patina del tempo e dei ricordi.
Il Palazzo, un Atlante con tre secoli sulle spalle, dopo gli ultimi eventi sismici ha subito internamente alcuni danni, ma la parte strutturale è integra ed esternamente resiste ancora l’intonaco tinto di un “rosso compleanno”, che è anche il carattere distintivo della piazzetta Santa Maria. L’ala del Palazzo, con ingresso su vico sole, è abitata dalla cara e simpatica amica Caterina de Gennaro, una custode esemplare; è la più giovane degli eredi col fratello Giuseppe che porta il nome di don Peppe e, credo, incarni la parte più genuina del carattere di suo nonno. Tra i tanti episodi impressi nei miei ricordi di dirimpettaio uno è legato a quella tonalità di rosso: don Peppe una mattina si recava al Comune in veste di sindaco e chiese ai vicini con amabile cordialità se apprezzavano quel “rosso compleanno”, era stato scelto superbamente dal suo eclettismo e sano egocentrismo. Inoltre fece riprodurre sulla cuspide del Palazzo lo stemma in cemento bianco col leone rampante che già figurava intagliato, in versione lignea, sull’ingresso principale. Era noto per il suo amore per l’araldica, tanto che disegnò negli anni sessanta, una sua personale versione dello stemma con l’ala di Larino, sostituendo all’originale uno scudo ovale su cui campeggia un’ala semiaperta e, aggiungo personalmente, senz’altro emblematica; intanto stravolse il tradizionale scudo, poichè in araldica quello ovale sintetizza gentilizi al femminile. Tuttavia quello scudo reinterpretato con l’ovale e un cartiglio barocco con ampie volute ai lati, quattro negli angoli con due margherite, una testa di bambino in basso, al centro, e nella parte superiore sormontato dalla corona con cinque torri, fu usato sulle buste e la carta intestata del Comune Frentano in quegli anni e lo è tuttora.
Tornando al Josephus in epigrafe, tra i suoi figli figura, don Alessandro de Gennaro, abate e arcidiacono del Capitolo della Cattedrale di Larino, che resse per alcuni anni la diocesi larinese, il suo ricordo in foto (prima parte del mio articolo) è nella poltrona, dorata e con i suoi emblemi, presso la quale posa la baronessa Anna Maria.
Altri notabili familiari furono, Luigi Alfonso, furiere maggiore della divisione Bixio, caduto nella battaglia del Volturno; il giureconsulto Giovanni Antonio, noto come l’avvocato della Carboneria. L’incantevole ritratto del bambino rappresentato con una rosa in mano è invece Felice Andrea, che ricoprì due volte la carica di sindaco di Larino e ospitò nel 1834 Ferdinando II di Borbone.
Una lastra voluta da Felice Andrea de Gennaro, affissa nel Palazzo Ducale, sede del Comune, celebra la visita del re a Larino:
A Ferdinando II, re delle due Sicilie, pio, felice, augusto, per il fatto che, giungendo a Larino, con l’intento di visitare le province nel secondo anno del suo impero, messa da parte la sua maestà regale, accolse molto benevolmente, con affidabilità preferibilmente paterna, un gran numero di persone di ogni ceto sociale, la comunità di Larino in segno di grande rispetto, per affidare ai posteri il ricordo della venuta assai propizia, fece collocare un monumento imperituro della sua riconoscenza, mentre era sindaco Felice Andrea de Gennaro, nell’anno 1834.
In una stampa dell’autore G. D’Alessandro di fine Settecento, conservata nel Palazzo de Gennaro è rappresentato come Cavaliere della Corona, col cavallo nella sua impennata.
Emilio de Gennaro, altro avvocato e Cavaliere Ufficiale della Corona d’Italia, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 fu deputato al Parlamento, il suo ricordo è in varie onorificenze e nomime, conservate nella biblioteca del Palazzo di famiglia, ma anche dediche in versi, a lui rivolti in virtù del gran rispetto di cui godeva.
La nobile famiglia ha un suo motto “chi fermo spera”, esso compare in una pergamena miniata, nella biblioteca, che magnificamente ricorda una delle sue nomine:
Emilio de Gennaro nella fausta occasione di questo affettuoso ricordo per la tua nomina a Commendatore i nostri nomi di amici immutabili puoi scolpire nel marmo.
Caradonio de Blasi, d’Alessandro, Bucci, Caprice, Barone…..
Indubbio è il forte amore dei de Gennaro per la Città Frentana, tanto che il ramo di Casacalenda edificò nel cosiddetto, a quei tempi, Piano delle Torri e oggi via Molise, sulle fondamenta di un edificio romano, la seicentesca Torre de Gennaro, attualmente abitata dai discendenti. L’antica Larinum sorgeva dove è ora il Piano San Leonardo, e la zona residenziale degli antichi larinesi, “romanizzati”, era in quella piana delle Torri, una zona che successivamente acquisì il nome di via degli Orefici, per via delle botteghe artigiane che vi sorsero.
La Galleria del Palazzo, come era abitudine per quelle stanze, col pavimento in antica maiolica con motivi floreali, mostra sulle pareti la teoria degli antenati dei de Gennaro, tra questi il fondatore del Palazzo che passò il nome al nostro caro don Peppe, barone, avvocato, Ufficiale di Cavalleria, cultore di studi antichi, nonché presidente della Banca di Larino.
Quell’Alfonso de Gennaro che verso la fine del Seicento si trasferì da Napoli a Casacalenda apparteneva ad una famiglia patrizia partenopea. Fu poi Josephus (1688-1764) da Casacalenda che preferì fissare nella piazzetta di Santa Maria la sua abituale dimora, a Larino, come è scritto sulla lastra del portone principale.
Alla fine del XIX sec. con l’avvocato Emilio de Gennaro il Palazzo subì radicali trasformazioni e l’anno 1923 vide la nascita della prima sede della Banca di Larino, cui si accedeva dalla porta a destra dell’ingresso principale, nella persona di Adelchi de Gennaro (in una foto datata 1906 con la moglie Adele).
La seconda sede, nei miei ricordi, sorse in un palazzo a metà della nota via Cluenzio, il Corso de “lo struscio” serale, che in quel punto si incrocia con via Falconio e via Marconi su cui fa capolino l’antico rosone ora inglobato nella chiesa dedicata al protomartire della cristianità.
L’avvocato Emilio, tra la fine dell’ ‘800 e gli inizi del ‘900, fu deputato al Parlamento, il suo ricordo è in vari cimeli, conservati nella biblioteca del Palazzo, sono onorificenze e nomine, ma anche dediche in versi a lui rivolti, in virtù del gran rispetto di cui era circondato.
Nel giorno di un suo compleanno fu ricordato nei seguenti versi:
Oh come lieto sorge/Questo giorno gentile/Splende giocondo il radioso aprile/Par giulivo che ei venga/Par che lieto d’oro si vesta/Del tuo bel nome a celebrar la festa/L’alma festa di te/Ch’inclito figlio/Dei Frentani glorioso….
Larino, 20 aprile 1891
Due quadri del Novecento ci presentano due donne, il ritratto dipinto nel 1929 da Luigi Crisconio di Esther Pietravalle, sposata Volpe e madre della baronessa Anna Maria in de Gennaro.
La signora era la primogenita di quattro sorelle e un fratello, figli dell’onorevole Michele Pietravalle.
L’altro quadro è un ritratto della sorella minore di Esther, ovvero Lina Pietravalle, giornalista e nota scrittrice negli anni ’20-’30.
In qualità di scrittrice pubblicò con la Mondadori e la Bompiani quattro raccolte di racconti, tra cui “Marcia nuziale”, che ho avuto modo di leggere: uno scritto quasi “femminista” che anticipa le discussioni sulla parità dei sessi e la condizione femminile, e il suo romanzo “Le catene”. La scrittrice si firmava vezzosamente Lyna, è stata una donna moderna, dalla innata eleganza, di grande cultura ed emancipata.
La sua infanzia la passò in un collegio di Torino, poi da sposata venne a vivere nel Meridione, dopo la morte del marito Pasquale Nonno, anche lui noto giornalista, si risposò.
(nella foto del 1907 il suo primo matrimonio).
Una foto di gruppo da archivio privato la ricorda col marito, il secondo dopo la vedovanza, la mamma Maria e la sorella Esther.
In qualità di scrittrice, in un articolo apparso nel 1924 sul periodico “Il mattino illustrato”, la Pietravalle descrive così la Festa di San Pardo, l’antico e vero spirito di devozione del larinate:
La grassa vetusta Larino del Molise ha un segno di vetusta sapienza e potenza nella rievocazione d’un bel sogno mistico conservato intatto nel culto e nella tradizione degli avi.
La civiltà della cittadina sazia di olii morbidi e sagaci s’onora di questa festa veramente bella, ricca, profumata di paganità, sacra di un significato terrestre che nessuno ha potuto mai rallentare, sfrondare, diminuire nel culto e nella passione della sua gente.
San Pardo era un vescovo greco…..I larinesi sentono la poesia di questo solitario asceta esiliato sulle rive della bellezza ai contrafforti solenghi del più ignoto Abbruzzo e lo rubano con dei carri. Il suo volto d’antica medaglia è intatto. Ma sorge la disputa coi paesi vicini per la preziosa conquista del corpo salvo di corruzione che odora di santità come un cedro del Libano.
E allora si lascia il carro che lo trasporta tirato dai buoi senza guida.
……E il carro giunge a Larino portando la benedizione e la preferenza del santo greco. Su questa armoniosa leggenda si innesta la bellissima festa della carrese.
Ogni famiglia nei secoli ha il suo carro tirato dai buoi, ispirati dalla tradizione atavica alla solennità del rito pio, alla genuflessione caratteristica che compiono pensosi e prudenti con gli occhi annegati di dolcezza estatica.
…….L’antichissimo dei carri porta il venerabile corpo del santo ed il suo busto d’argento è l’ultimo. Si svolge così una teoria magnifica di colori nella vivezza tersa del sole che esalta, tripudia e consola……La fastosa simbolica processione sale il pio colle del camposanto, e fa visita a S. Primiano che è lassù a vigilare i morti ed i vivi nella cappella funebre. Ritorna alla sera.
Spenta ogni luce ardono solo le fiaccole della carrese che spargono attorno aloni di fuochi e riflessi mistici. Dinanzi alla Chiesa le statue attendono il prezioso corpo di San Pardo puro e ardente nella gloria del rito come un olio essenziale di salute eterna. Ed allora ogni portatore del carro suona a distesa la campana del bove, simbolo olimpico della bontà della terra e della fatica, quella stessa che frange il silenzio casto dei campi contriti dell’aratro e percossi dalla falce. I buoi si inginocchiano nella preghiera e nell’adoremus e tutti i carri pendono prostati come corpi vivi. Fioriscono a mille, creati dalla passione liturgica antica e nuova, gli ingenui stornelli della carrese sacra culminanti nel grido “San Pardo vò lu prezzo e vò l’onore, sona campana mia sti canto d’amore.
Lyna Pietravalle
Arnaldo di Lisio (1869-1949), che affettuosamente Lyna chiamava zio, è stato un pittore di vocazione impressionista, a Parigi si perfezionò come “maestro del colore” conoscendo tutto l’ambiente artistico degli inizi del Novecento e il noto pittore Giuseppe Gaetano De Nittis.
Celebri le sue opere realizzate nel suo soggiorno parigino, soprattutto piazze e scorci della città, come ad esempio “Place de la Concorde”, un piccolo olio su tavola, 40×30.
Tornato a Napoli, la sua città natale, portò le novità del colore e fece diverse, successivamente operò a Milano e a Roma.
Un suo dipinto è conservato a Palazzo Chigi, ha per tema l’inverno, o meglio l’ultimo inverno, questo il titolo, di un vecchio barbone sotto una coperta in un angolo di Roma.
Una sua opera è anche a Buenos Aires (“Gente semplice”) ed ha per tema le migrazioni italiane, per cui il di Lisio affrontò anche tematiche di spessore, lontane dalla Bella Epoque, maturando lo stile impressionista appreso in Francia.
Innumerevoli sono le sue opere, tra cui anche pitture murali in edifici pubblici (il Teatro Savoia di Campobasso) e case private.
Venne definito il Maestro del colore, era una persona solare e simpatica e da buon partenopeo non disdegnava mai il sorriso e la sana ironia.
Esco in punta di piedi dal Palazzo dei de Gennaro, indugio, sento un’eco, l’allegria delle feste nel salone dal lungo tavolo con i suoi seggioloni, corredato da due monumentali credenze; rivedo l’antico e pesante lampadario elettrizzato di legno dorato che, chiamato dalla baronessa in occasione di una lieta ricorrenza, sollevai con un gancio da macellaio per rendere più luminosa quell’enorme sala da pranzo.
Adesso sono, col ricordo, nel salottino d’ingresso, un’aura ottocentesca mi avvolge di rosso, volgo il mio sguardo a un altro dipinto del di Lisio, un volto maschile sopra una carta da parati Impero, sembra voglia salutarmi con un addio o forse un arrivederci, chissà!
E di nuovo indugio, adesso guardo l’antico divano tappezzato di velluto rosso usurato, risento nelle mie braccia il suo peso, quando lo riconsegnai riparato di un suo piede, che non aveva retto all’imponenza di Orlando, l’amato e giocherellone alano arlecchino. E’ l’ora del congedo, sono sempre più convinto che non apprezzerei mai il valore del tempo presente, fin quando non si muta in tanti piccoli e grandi ricordi.
Scendo le rampe delle scale, sembrano non finire, sono contento di aver rivissuto quelle atmosfere di antica memoria e quei tempi passati, e anche di averli condivisi con voi, quel mondo è ormai scomparso, ma è stato bello ricordarlo.
Il mio ultimo indugio è sulla soglia dell’ingresso principale, appena fuori mi aspetta quello che resta “du Chian da Madonn”,
un cantiere di lunghi e interminabili lavori e qualche vecchio amico residente superstite che non esita mai a salutare, a volte anche con un solo “uagliò com stì”……..
E quasi avverto su quell’antica soglia la presenza della baronessa, ferma in un angolo che, come in dovere di “noblesse oblige”, non scenderà sulla piazzetta finché non vedrà arrivare il suo autista.
Adolfo Stinziani