Un omaggio a Larino, alla tradizione
e ai forestieri.
Larino mia messa in croce, senza più voce e tradita.
Larino calpestata, cenere di un mondo ormai combusto.
Anima dolce dei larinesi, tra le stelle.
Larino amata, sul colle e nel fosso.
Dal nobile incarnato, dal sudore speziato.
Solenne, fiera, devota e festosa nei lunghi giorni di maggio.
Sono nato qui e solo qui respiro.
Sempre torno alla mia amata terra, alle sue colline
e all’orizzonte infinito col suo mare.
(Larino mia di Adolfo Stinziani)
LARINO. Dopo i versi dedicati alla sua Larino, Adolfo Stinziani con il suo stile sempre molto delicato e diremmo familiare ci fa conoscere oggi uno degli emblemi della Larino medievale, il campanile della Cattedrale che lui stesso ha definito una summa di arte, fede, storia ed archeologia.
“Maggio – scrive Stinziani – è da sempre per i larinesi il mese della Festa per eccellenza, i festeggiamenti per il Santo Patrono durano tre giorni, ma si ricordano, dall’ inizio del mese, anche i Santi Martiri larinesi.
Processioni nelle strade del centro storico e nell’antica Larinum (l’attuale Piano San Leonardo), celebrazioni nel duomo in onore di San Pardo e dei co-pratoni martiri San Primiano, Firmiano e Casto, colorano e santificano i giorni di maggio.
Purtroppo per il secondo anno i festeggiamenti sono stati diversi da quella che è la millenaria tradizione della carrese larinese.
Le restrizioni della pandemia hanno bloccato la vera festa, ma nell’aria e nel cuore dei larinesi resta immutato quel sentimento di appartenenza a una comunità forte e fiera della sua identità storica e religiosa.
Malgrado tutto, il 30 maggio il busto argenteo di San Pardo è tornato, dopo essere stato onorato in maniera insolita e ridotta dai fedeli larinesi, nella sua edicola nella sagrestia del duomo.
Quel giorno ho ricevuto a Larino Giusy e Rossana, due carissime amiche di Campobasso, che hanno voluto partecipare alla chiusura della festa e visitare il centro storico.
In effetti, oltre la fede, che palpabile si percepisce nel mese di maggio, si riscopre il senso della comunità e con essa l’accoglienza, e nasce l’amicizia col forestiero che viene e partecipa alla colorata e sacra carrese.
In particolare Giusy mi ha scritto in un messaggio che nel giorno di San Pardo ha sentito il suono della campana del nostro campanile su un mio post e che sarebbe venuta a sentire dal vivo quel suono antico, ma sempre emozionante e attuale, quei rintocchi che lei ha definito: segni di pace divina e terrena ritrovata in terra Frentana.
Tre sono esattamente le campane poste all’ultimo piano della torre campanaria del duomo larinese, che sebbene costruita in epoca successiva forma un tutt’uno con la Chiesa.
La “campana della dottrina”, ovvero la più piccola, ha il diametro di 80 cm e pesa 3 quintali, vi sono raffigurati il Santissimo Sacramento e la Madonna Assunta, e sull’orlo la scritta con la committenza vescovile (Petri Bottazzi) e il prestigioso nome della fonderia:
THOMAS E RAPHAEL ANGLONENSES FUDERUNT ANNO DOMINI 1854.
La “campana mezzana”, quella media, ha il diametro di un metro e pesa 7 quintali, nella parte centrale vi sono raffigurati il Santissimo Sacramento, la Madonna, I Santi Martiri larinesi e lo stemma del vescovo Bottazzi.
Nella parte superiore una scritta recita:
SS. SACRAMENTO-DEIPARAE AD COELUM ASSUMPTAE – MARTYRIBUS PRIMIANO FIRMIAMO ET CASTO HUIUS CIVITATIS FRATRIBUS-PETRUS BOTTAZZI EPISCOPUS LARINENSIS-ANNO REPARATAE SALUTIS 1857-EPISCOPATUS XII-DE PECUNIA SUA CONFLANDAM CURAVIT-ID NE IGNORENT POSTERI-HOC MEMORIA POSUIT
La campana di San Pardo che è la più grande, ha un diametro di 1,20m e pesa 13 quintali, è stata rifusa nel 1854 in sostituzione di una rotta l’anno precedente e che era stata fusa nell’episcopato di Giovanni Andra Tria junior (1724-1747).
Sulla campana, nella parte centrale, sono rappresentate l’Immacolata, l’Assunta, Gesù Crocifisso e San Pardo, mentre nella parte superiore corre un’invocazione:
SANATUS DEUS- SANCTS FORTIS-SANCTUS IMMORTALIS-MISERERE NOBIS-A FULGURE ET TEMPESTATE LIBERA NOS.
Lo stemma del vescovo Bottazzi, il nome della nota fonderia e l’anno della fusione, sono ricordati nella parte inferiore.
L’intera torre campanaria, con un’altezza complessiva di 33 metri, poggia su un possente arco a sesto acuto tutto in pietra, alto più di 6 metri, largo 8 e profondo 8,15m.
A.D. MCDXXXXXI MAGISTER IOHANNES DE CASALBORE FECIT HOC OPUS
E’ l’iscrizione posta a destra della facciata dell’arco, su Piazza del duomo, che identifica il Magister e la data dell’antico edificio, noto più comunemente ai larinesi come “L’arc d’ San Pard”.
La torre campanaria si compone precisamente di tre piani di forma quadrata che gradatamente si restringono sul lato sinistro, mentre il lato destro è attaccato al duomo.
Anticamente al primo piano si trovava l’Archivio Capitolare, come scrive monsignor Tria (Memorie Storiche, Civili ed Ecclesiastiche della Città, e Diocesi di Larino, pag.212).
Tutti e tre i piani sono incorniciati in pietra e divisi da tre cornici marcapiano anch’essi di pietra, mentre a faccia vista la torre è ricoperta di mattoni disposti a spina di pesce.
La parte anteriore, che affaccia su Piazza del duomo, al primo piano porta le insegne della Città di Larino, del vescovo Giacomo de Petrucci e della famiglia Pappacoda; inoltre un’epigrafe ricorda il vescovo suddetto
HOC OPUS STRUXIT UNA CUM CIVITATE
(L’opera è stata realizzata col contributo della cittadinanza).
Si è soliti dire che i bei ricordi aiutano a vivere meglio, io credo che, in questa visita di cari amici che vi racconto, danno, alla mia descrizione storico-artistica, anche un tono più gradevole e umano.
Ebbene, quando guardo il nostro campanile non posso che ricordarmi di mio padre. Io da bambino, felice e orgoglioso, entravo con lui dal portale del duomo e poi, sulla navata destra, appena dopo il Battistero, aperta una piccola porta salivo su per le ripide scale al secondo piano del campanile.
Lì era sistemato un orologio da torre, papà dava una rapida occhiata agli ingranaggi dell’orologio settecentesco che conosceva “come le sue tasche” e iniziava a “dargli la corda”, un lavoro di precisione che lo occupava quotidianamente.
La fonte d’energia dell’orologio, realizzato da Francesco Grassi nella metà degli anni ottanta del Settecento, proviene da pesi, in passato costituiti da grossi massi di pietra, adesso da vaschette contenenti del piombo.
Il congegno è articolato in tre treni di ruote dotati da altrettanti contrappesi con la ricarica manuale. Il primo treno è per la scansione del tempo e gli altri due per la suoneria dei quarti e delle ore.
A suonare sono prima i quarti e poi le ore, queste ultime segnano il tempo con un massimo di sei colpi, che si ripetono quattro volte nell’arco delle ventiquattro ore.
Quelle antimeridiane suonano alle ore 7 con un rintocco e continuano fino alle 12 con sei. Nel pomeriggio dalle ore 13 alle 18 avviene la stessa cosa, la sera ancora dalle ore 19 alle 24 e infine la notte dall’una alle ore 6.
Quest’orologio da torre era al secondo piano del campanile fino agli anni Ottanta, adesso è esposto in maniera permanente nel Museo Diocesano, che ha sede nell’episcopio di Larino.
Per notizie più dettagliate vi invito a leggere lo scritto (Un orologio da torre in esposizione permanente) dell’amico Giuseppe Mammarella, Responsabile Diocesano dell’archivio storico e biblioteca di Termoli-Larino, apparso sui vari organi d’informazione regionale sul finire del 2019.
Il campanile del duomo termina con una guglia piramidale ottagonale in pietra, la sommità è sormontata da una sfera di bronzo, su questa un gallo di bronzo che gira secondo i venti, e infine su di esso il simbolo della Cristianità, la Croce, di ferro.
Anche nella cupola sono presenti le campane, ce ne sono tre, tutte fuse dalla prestigiosa fonderia agnonese, una è detta “della Messa” le altre due suonano rispettivamente le ore e i quarti, quest’ultima è dedicata al Santo Patrono.
Ma la torre campanaria, da me definita, non a caso, una summa, non finisce di stupire. Infatti nella parte posteriore su via Raone, intitolata al vescovo che volle erigere la Cattedrale, inaugurata nel luglio del 1319, sono incastonati reperti appartenenti all’antica Larinum.
Tra questi una epigrafe sepolcrale con l’iscrizione: DIDIAE BARBII DECUMA OPIANICA ET BILLIENA MATRI FECERUNT.
L’importanza del vescovo Raone de Connestabulo è invece testimoniata da un bassorilievo in cui il personaggio ecclesiastico è rappresentato con un fanciullo, egli discende dalla nobile famiglia di Roberto di Bassavilla, conte di Loritello.
Tornando ai reperti romani, spuntano a destra e a sinistra del poderoso arco del campanile maschere, bucrani e festoni, precisamente sono tre bucrani, quattro festoni e due maschere, oltre l’epigrafe di cui ho già scritto.
Quest’ultima proviene molto verosimilmente da un bellissimo e ricco monumento sepolcrale databile nella metà del I sec. a.C., di cui Marina Torelli negli anni Settanta avanza l’ipotesi che gli stessi festoni e bucrani ne facessero parte. In effetti sul lato destro dell’epigrafe sepolcrale è presente, attaccato, un bucranio, gli altri due fanno parte di altri blocchi separati che si completano con i festoni.
La maschera funebre incastonata sotto l’epigrafe ha le sembianze di un vecchio barbuto con occhi abnormi e atterriti, il naso è lungo e schiacciato, due rughe accompagnano l’enorme bocca aperta che mostra una dentatura non più giovanile e, in atto di derisione, ecco la lingua lunga che fuoriesce (forse addirittura due, di cui una più piccola).
Sullo stesso piano, a destra, attaccata a un festone, l’altra maschera di soggetto femminile dalle lunghe chiome cadenti ai lati del volto e spettinati.
Anche questa ha un aspetto grottesco: grandi occhi atterriti, naso piccolo e schiacciato, bocca aperta e due rughe profonde che accentuano il ghigno.
I bucrani, che sono pregevoli altorilievi, sono rappresentati in maniera molto naturalistica, ciuffi di peli sono resi con maestria dall’antico scalpellino e quasi si avverte il respiro delle froge, lunghe infule fasciano le corna e ricadono ai lati delle teste dei bovi.
Ed è in questi piccoli pregevoli e splendidi elementi decorativi dell’antica Larinum che continua a vivere l’arte classica greco-romana.
Un fregio del III sec. a.C., proveniente dal parapetto del tempio di Arsinone, oggi nel Museo di Samotracia mostra nel particolare due teste di bue con le corna ornate da infule.
Tuttavia non è da considerare solo come un semplice ornamento, l’infula è carica di simbologie, in primis la morte ma anche la rinascita, ed ancora il potere e la sacralità.
Ed ecco che il “cerchio si chiude” e, a quanto pare, con la tradizione, con la sacra festa larinese in onore di San Pardo; con due buoi che trainano ogni singolo carro addobbato con fiori di carta, dove la natura sembra rigenerarsi in mille colori, le cui corna sono fasciate di stole di lino ricamate e frangiate, simboli di morte e rinascita”.
Nulla rinasce se non muore.
Ed io che guardo nient’altro che i tuo corpo assopito,
ti chiedo:
Svegliati, svegliati, svegliaci.
(Ultimi versi della poesia “Larino mia” di A. Stinziani)