LARINO. Un anno fa, eppure sembra passata un’eternità. Ed invece, soltanto 365 giorni, ci dividono da quell’annuncio alla Nazione, quel #iorestoacasa che doveva essere la risposta di un popolo intero all’avanzare del virus, all’avanzare di un nemico silenzioso ma estremamente violento che aveva in pochi giorni dato prova della sua forza.
L’Italia si ritrovò dalla sera alla mattina in lockdown, scoprì in poche ore cosa significasse rinunciare alla libertà individuale per tutelare il bene supremo della salute di tutti. Si svegliò come se fosse in guerra, una guerra tanto diversa da quelle che molti di noi hanno visto soltanto nei film. Tanto diversa da quelle che le nostre memorie storiche avevano combattuto sui monti dell’Appenino, lungo le rive dei fiumi al confine con il nemico.
Un anno fa ci fu silenzio. Un silenzio irreale di una Nazione intera che dopo i festeggiamenti del Carnevale si trovò a vivere una lunga quaresima di dolore. Come dimenticare gli annunci dei positivi, il caso Codogno, come dimenticare, quando intorno la primavera stava fiorendo, il corteo continuo di camion militari che portavano via da Bergamo i morti? Come dimenticare le città vuote ed i balconi fioriti di colori con le scritte #andratuttobene?
Gli italiani si riscoprirono italiani, figli di una terra che si riappropriava dei suoi valori autentici. L’inno di Mameli, le notte magiche di una melodia azzurra, dai balconi ci scambiava anche il caffè, fiduciosi che tutto potesse presto finire. Dalle Alpi alla Sicilia si diffondevano sui social messaggi di speranza anche quando il numero dei morti saliva. Anche quando fu Pasqua e in quella Piazza San Pietro, l’uomo vestito di bianco, da solo, percorreva il sagrato per lanciare a Dio una preghiera di aiuto.
Si era in guerra ed i nostri militari non erano vestiti di verde, ma di bianco. Camici bianchi nelle corsie degli ospedali, eroi, o semplicemente donne e uomini che per un giuramento d’amore avevano indossato tute e mascherine, guanti e occhiali di protezione per essere vicino a chi sperimentava un effetto sconosciuto alle guerre tradizionali: la fame d’aria.
Ogni giorno il bollettino di guerra lasciava sul campo decine, centinaia di uomini e donne, nella disperazione intere famiglie. Mentre il mondo intero muoveva i primi passi alla ricerca di una cura, di più cure che potessero debellare il subdolo virus partito forse da un mercato cinese fino a quel giorno completamente sconosciuto ai più.
Quel #iorestoacasa sembra davvero lontano eppure oggi, a distanza di un anno, l’Italia, complice la recrudescenza del virus, la presenza di varianti più diffusive se non anche più aggressive soprattutto tra i più giovani, si trova ad affrontare il rischio di finire nuovamente in lockdown.
Al momento i dati non lasciano adito a dubbi, dopo il Natale anche la Pasqua, la seconda di questa guerra contro il virus, la passeremo a casa. La passeremo guardando al passato e, purtroppo troveremo altre sedie vuote intorno a noi. Fratelli, genitori, nonni mandati in prima linea a combattere e tornati a casa in un sacco senza tricolore.
Un anno è passato, 365 giorni di battaglie, di sconfitte pesanti, di lutti, di momenti di sconforto totale ma anche di significativi successi che hanno portato non uno, ma tanti Stati ad individuare un vaccino da distribuire alle truppe, partendo da quelle che in questa guerra sono state chiamate al fronte fin dai primi giorni.
Un anno, vedo mio figlio cresciuto e mi accorgo di quante cose abbia perso in un anno. Quante cose ha perso ognuno di noi, ma poi torno a pensare al futuro. Mio figlio, i nostri figli, i nostri genitori, ognuno di noi, ha oggi una speranza in più, un’arma vincente da impugnare, che si chiama vaccino.
L’unica arma vincente contro il nemico silenzioso, l’unica arma per cui ogni Stato, ogni regione dovrebbe impegnare fino all’ultimo spicciolo per dotarsene senza se e senza ma perché davvero dopo un anno si possa finalmente mettere la parola fine a questa parte della nostra storia così tanto diversa da come l’avremmo voluta.
Nicola De Francesco